Corriere della Sera

La fuga di Daria con la figlia: «I russi nel rifugio Ci volevano portare da loro»

- di Giusi Fasano

«C’era un freddo che non so descrivere. Sentivamo il gelo fino al cuore. Abbiamo messo le nostre giacche a vento contro le finestre rotte per provare a far passare meno aria ma io tremavo lo stesso, e a un certo punto non ho più capito se tremavo di freddo o paura».

Daria Gorodnicha­ya, 28 anni, sta parlando di un’altra Ucraina. Non può essere che la sua Mariupol sia nello stesso Paese di questo piazzale tranquillo, davanti alla stazione centrale di Leopoli. Si lascia scaldare dal sole tiepido del primo pomeriggio e ripensa a quella città sfigurata, irriconosc­ibile. «Voi non avete idea di che cosa hanno fatto...».

Daria e Angelina, la sua bimba di cinque anni, sono arrivate in treno con Miky, il cagnolino di famiglia. Vengono dai giorni dell’assedio barbaro di Mariupol, passati nei sotterrane­i del palazzo in cui vivevano. Niente corrente elettrica, niente connession­e, niente per scaldarsi, cibo e acqua da razionare. E buio. Un buio che di giorno lasciava passare qualche raggio di luce ma di sera e di notte era denso, moltiplica­va paure e rumori. In quanti eravate lì sotto?

«In 170. All’inizio scendevamo quando suonavano le sirene ma è andata sempre peggio. Dal 2 marzo in poi sono saltate le linee telefonich­e e la corrente, praticamen­te siamo stati sempre lì, come topi, al freddo e senza poter comunicare con il mondo». Il cibo e l’acqua?

«Ne avevamo procurato un po’ nei giorni prima del disastro totale, abbiamo razionato tutto. Adesso non c’è più acqua in città». Come avete fatto a difendervi dal freddo?

«A parte le giacche sui buchi delle finestre eravamo sommersi dalle coperte. Guardi qui». Mostra la foto di due gatti Sphynx (quelli senza pelo)

Mia madre è morta a pochi isolati da me Non l’ho salutata. In un villaggio vicino, mentre scappavo, ho saputo da un conoscente che il suo corpo è in una fossa comune

con due cuccioli, tutti morti: «Li ha uccisi il freddo, non ho potuto salvarli». Perché avete deciso di uscire sotto le bombe?

«Non abbiamo deciso noi. La sera del 16 marzo sono arrivati dei soldati russi dentro al rifugio. Eravamo impietriti, nessuno ha detto una parola. Volevano che ce ne andassimo da lì. Qualcuno ha risposto: è già sera, dove andiamo a quest’ora? Così ci hanno lasciato in pace. Ma sono tornati al mattino dopo e ci hanno ordinato di andarcene». Cosa dicevano?

«Che erano bravi, che erano venuti per liberarci. Noi avevamo cancellato dai cellulari tutte le fotografie che potevano farli arrabbiare, perché sapevamo che spesso guardano i telefoni. A qualcuno hanno chiesto di spogliarsi per controllar­e che non avesse tatuaggi nazisti. Un soldato ha visto questi simboli (mostra la sua mano sinistra, ndr) e mi ha urlato contro: cosa sono? Gli ho detto che non c’entrano niente con il nazismo, che è solo un disegno che mi piace...Mi ha

lasciato andare». L’allarme aereo irrompe nella piazza della stazione. La piccolina corre dritta verso sua madre, in lacrime. È sempre così spaventata dalle sirene?

«Sì, fa sempre così, è terrorizza­ta. Questo suono è terrifican­te per noi adulti, figuriamoc­i per i bambini... Qui adesso è soltanto la possibilit­à remota di un attacco ma fino a pochi giorni fa, a Mariupol, una sirena era l’annuncio di bombe, di palazzi che crollano, di morti e feriti... Sono paure che paralizzan­o». È morto qualcuno della sua famiglia a Mariupol?

Gli occhi di Daria si riempiono di lacrime. «Mia madre», risponde. «È morta a pochi isolati da me e non ho nemmeno potuto vederla, salutarla un’ultima volta». Eravate isolati. Come sa con certezza che è morta?

«Quando i russi ci hanno mandato via dal rifugio siamo arrivati a piedi al villaggio più vicino, a una ventina di chilometri da Mariupol. Lì ho trovato una persona che conosceva

mamma. Mi ha detto che l’hanno sepolta in una fossa comune. Non faccio che pensare a come si sarà sentita sola e spaventata». Con quale mezzo ha lasciato il villaggio?

«I soldati russi ci volevano far salire su autobus diretti in Russia. Ci siamo rifiutati. Nemmeno morta sarei partita per la Russia. Ho trovato un passaggio in macchina per un pezzo, in autobus un altro pezzo, poi in treno fin qui». Dov’è diretta adesso?

«In Polonia, dove vive e lavora mio marito. Voleva venire a prenderci ma era troppo pericoloso. Non ha potuto far altro che aspettare e pregare». Il giorno peggiore?

«Ogni giorno sembrava essere il peggiore ma poi quello dopo lo era ancora di più» Lei pensa che tornerà a Mariupol?

«Non so se tornerò per viverci. Di sicuro tornerò per mettere una croce e un nome dov’è sepolta mia madre, mi fa troppo male pensarla lì sotto in quel modo».

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In salvo Daria Gorodnicha­ya, 28 anni, con la figlia Angelina, 5 anni, arrivate a Leopoli

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