La scure su Navalny: condanna a 9 anni Ora il dissidente rischia di «sparire»
Il nemico numero uno del Cremlino non ha più agibilità politica, la sua presenza diventerà ancora più sporadica di quanto lo è stata negli ultimi 2 anni
Era accusato di «frode» e «oltraggio alla corte»
«Nove anni. Bene, come dicevano i personaggi di The Wire, la mia serie televisiva preferita, “fai solo due giorni, quello in cui entri e quello in cui esci”. Avevo anche una maglietta con questo slogan, ma le autorità carcerarie me l’hanno confiscata, considerandola estremista».
Aleksej Navalny era il primo a sapere che nei suoi confronti sarebbe arrivata un’altra condanna. Ancora più pesante dei due anni che stava già scontando nel carcere di Prokov, vicino a Mosca. E lo sconto rispetto alle richieste della Procura generale, che aveva chiesto il massimo della pena previsto per il reato di frode e oltraggio alla corte, ha il sapore di una ulteriore beffa. Come quando, dopo l’avvelenamento avvenuto in Siberia nel 2020 e il ricovero in un ospedale di Berlino che gli aveva salvato la vita, i comunicati del Cremlino si riferivano a lui definendolo «il paziente tedesco».
Il verdetto di ieri assume un significato quasi definitivo. Uno dei suoi tormentoni più popolari quando era un uomo libero e il blogger di riferimento degli attivisti delle grandi città russe, era «conta solo il risultato». Appunto. Navalny è fuori gioco. La sua presenza sarà ancora più sporadica di quanto lo è stata negli ultimi due anni trascorsi tra prigione e tribunale. Fine corsa, ha commentato Vladimir Soloviov, il conduttore televisivo prediletto da Vladimir Putin. E per una volta, ha ragione lui.
La censura
La rete che ha creato in questi anni continuerà ad agire in suo nome, pubblicando inchieste, facendolo parlare attraverso i social che furono il suo punto di forza e ora sono proibiti in madre patria. Saranno commentati all’estero, riceveranno senz’altro attenzione. «Putin ha paura della
La censura «Putin ha paura della verità, combattiamo la censura» ha detto Aleksej dopo il verdetto
verità» ha scritto dopo la sentenza. «La nostra priorità rimane quella di combattere la censura per far conoscere la verità al popolo russo». Ma da ieri, l’agibilità politica di Navalny non esiste più. La parabola del nemico numero uno del Cremlino si è compiuta. Chi si chiedeva quale avrebbe potuto essere il suo ruolo dopo la scelta coraggiosa di tornare in patria dalla Germania, ha avuto la risposta.
Il presidente russo non gli potrà mai perdonare la sua svolta politica del 2011, quando Navalny face inversione a U rispetto alle sue posizioni nazionaliste. Era stato un convinto sostenitore della Grande Russia, aveva addirittura appoggiato l’intervento militare in Georgia del 2008. Ma fu lesto a virare il suo populismo carismatico verso il malcontento che aleggiava nella società russa intorno al Cremlino e all’oligarchia putiniana. Il suo sito RosPil lo consacrò a fustigatore del sistema trasformandolo nel leader della protesta che riempì le strade di Mosca e San Pietroburgo nella primavera del 2013. L’andata e ritorno delle patrie carceri cominciò a quell’epoca. Navalny non era ancora l’icona del dissenso che conosciamo oggi. Era stato anche contestato dai suoi sostenitori, quando rifiutò di condannare l’annessione della Crimea del 2014, il capitolo iniziale dell’operazione militare speciale in Ucraina.
La candidatura
Fu proprio Putin a innescare la sua trasformazione definitiva, impedendogli di candidarsi alle elezioni del 2018, che lo «zar» avrebbe comunque stravinto, e fornendogli così la patente di primo oppositore ufficiale. Navalny colse l’occasione al volo. Il suo canale YouTube cominciò a sfornare inchieste a cadenza mensile, rivelando tra le altre cose le proprietà non dichiarate dell’allora premier Dmitrij Medvedev. Divenne una spina nel fianco. Anche dopo il suo avvelenamento, quando rivelò il ruolo avuto da alcuni esponenti dei servizi segreti russi nel tentativo di eliminarlo, e il suo video sulla residenza sul Mar Nero che secondo lui apparteneva a Putin fece oltre cento milioni di visualizzazioni.
Nello scorso gennaio, il suo nome era stato inserito nella lista dei «terroristi estremisti» redatta dal Servizio federale per il monitoraggio finanziario. La sua addetta stampa è fuggita dalla Russia, inseguita da un mandato di cattura. I suoi avvocati sono stati arrestati all’uscita dal Tribunale mentre parlavano con la stampa. Le cancellerie internazionali hanno protestato quasi all’unisono contro la condanna. «Vogliono farlo tacere» ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price. Ma rimangono pur sempre nove anni. Quel che conta, è il risultato.