«Mais e grano, contro la scarsità utilizziamo i terreni incolti»
Prandini (Coldiretti): disponibili 200 mila ettari, si può arrivare a 1 milione
«Utilizzare subito 200 mila ettari messi a riposo. E nel medio periodo arrivare fino a un milione di ettari, considerando anche i terreni non coltivato o abbandonati. Così potremo far fronte alle carenze di mais e grano». Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, ha le idee chiare su come far fronte alle minori importazioni — in particolare di granturco e frumento tenero — da Russia e Ucraina. Per evitare anche di dover importare le quantità mancanti da paesi come Usa e Canada che hanno norme diverse sui requisiti qualitativi delle materie prime: non si può mettere a rischio la salute».
Colture come il mais vanno seminate ad aprile: arriverà in tempo l’ok della Ue alla deroga sull’obbligo di mettere a riposo una certa quota di terreni?
«L’intesa di massimac’è. Se la Ue accelera, il via libera definitivo potrebbe arrivare anche nelle prossime ore e allora saremmo in tempo allora per la semina ad aprile. I 200 mila ettari a riposo potrebbero essere subito coltivabili. ma nel medio periodo si può fare molto di più».
Si riferisce al milione di ettari che, complessivamente, non sono coltivati in Italia?
«Sì, o almeno a gran parte di quel milione, per recuperare il terreno perduto, e in questo caso non è un modo di dire: nello spazio di una sola generazione, in 25 anni, l’Italia ha perso più di un terreno agricolo su quattro seguendo un modello di sviluppo sbagliato che ha causato la scomparsa del 28% delle campagne».
Il modello della globalizzazione che con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha mostrato le sue crepe?
«Sì, direi il modello di globalizzazione spinta che la Ue ha sposato e che ha fatto del prezzo l’unico riferimento da seguire per approvvigionarsi laddove è più conveniente. L’importante era, quindi, che ci fosse disponibilità sui mercati mondiali. Ma è bastato che nei mesi scorsi la Cina acquistasse più cerali, forse causa Covid, per far salire i prezzi e mettere in crisi una filiera a livello mondiale».
Ma il modello è risultato sbagliato alla luce degli ultimi eventi o lo era già dal principio?
«Secondo noi lo è sempre stato: era sbagliato perché si è permessa l’importazione di prodotti che non rispettavano i nostri stessi standard sull’utilizzo di fitosanitari e sulla tutela del lavoro; dall’altro, non si è investito in ricerca».
Ma i terreni che tornano disponibili, dovranno pur essere coltivati: come si fa a far tornare i giovani nei campi?
«Se prima si incentivava a non coltivare, adesso la stessa contribuzione che si utilizzava per mettere un terreno a riposo va utilizzata per coltivarlo. E poi bisogna investire in infrastrutture».
Un esempio?
«Noi tratteniamo solo l’11% dell’acqua piovana, possiamo arrivare al 50% come già avviene in altri Paesi. Così un terreno non irriguo diventa irriguo, si triplica la sua resa e diventa redditizio. E quindi attrattivo anche per i giovani».
Con un milione di terreni in più da coltivare l’Italia diventerebbe autosufficiente?
«Nel breve no, ma possiamo diventarlo in 6-7 anni. Di certo saremmo meno dipendenti dalle importazioni, per le quali abbiamo soltanto una cosa da chiedere alle istituzioni: non compromettere i requisiti qualitativi delle materie prime importate per non mettere a rischio la salute, penso al glifosate del Canada e alle aflatossine degli Usa».