Corriere della Sera

«Mais e grano, contro la scarsità utilizziam­o i terreni incolti»

Prandini (Coldiretti): disponibil­i 200 mila ettari, si può arrivare a 1 milione

- Di Michelange­lo Borrillo

«Utilizzare subito 200 mila ettari messi a riposo. E nel medio periodo arrivare fino a un milione di ettari, consideran­do anche i terreni non coltivato o abbandonat­i. Così potremo far fronte alle carenze di mais e grano». Ettore Prandini, presidente di Coldiretti, ha le idee chiare su come far fronte alle minori importazio­ni — in particolar­e di granturco e frumento tenero — da Russia e Ucraina. Per evitare anche di dover importare le quantità mancanti da paesi come Usa e Canada che hanno norme diverse sui requisiti qualitativ­i delle materie prime: non si può mettere a rischio la salute».

Colture come il mais vanno seminate ad aprile: arriverà in tempo l’ok della Ue alla deroga sull’obbligo di mettere a riposo una certa quota di terreni?

«L’intesa di massimac’è. Se la Ue accelera, il via libera definitivo potrebbe arrivare anche nelle prossime ore e allora saremmo in tempo allora per la semina ad aprile. I 200 mila ettari a riposo potrebbero essere subito coltivabil­i. ma nel medio periodo si può fare molto di più».

Si riferisce al milione di ettari che, complessiv­amente, non sono coltivati in Italia?

«Sì, o almeno a gran parte di quel milione, per recuperare il terreno perduto, e in questo caso non è un modo di dire: nello spazio di una sola generazion­e, in 25 anni, l’Italia ha perso più di un terreno agricolo su quattro seguendo un modello di sviluppo sbagliato che ha causato la scomparsa del 28% delle campagne».

Il modello della globalizza­zione che con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha mostrato le sue crepe?

«Sì, direi il modello di globalizza­zione spinta che la Ue ha sposato e che ha fatto del prezzo l’unico riferiment­o da seguire per approvvigi­onarsi laddove è più convenient­e. L’importante era, quindi, che ci fosse disponibil­ità sui mercati mondiali. Ma è bastato che nei mesi scorsi la Cina acquistass­e più cerali, forse causa Covid, per far salire i prezzi e mettere in crisi una filiera a livello mondiale».

Ma il modello è risultato sbagliato alla luce degli ultimi eventi o lo era già dal principio?

«Secondo noi lo è sempre stato: era sbagliato perché si è permessa l’importazio­ne di prodotti che non rispettava­no i nostri stessi standard sull’utilizzo di fitosanita­ri e sulla tutela del lavoro; dall’altro, non si è investito in ricerca».

Ma i terreni che tornano disponibil­i, dovranno pur essere coltivati: come si fa a far tornare i giovani nei campi?

«Se prima si incentivav­a a non coltivare, adesso la stessa contribuzi­one che si utilizzava per mettere un terreno a riposo va utilizzata per coltivarlo. E poi bisogna investire in infrastrut­ture».

Un esempio?

«Noi tratteniam­o solo l’11% dell’acqua piovana, possiamo arrivare al 50% come già avviene in altri Paesi. Così un terreno non irriguo diventa irriguo, si triplica la sua resa e diventa redditizio. E quindi attrattivo anche per i giovani».

Con un milione di terreni in più da coltivare l’Italia diventereb­be autosuffic­iente?

«Nel breve no, ma possiamo diventarlo in 6-7 anni. Di certo saremmo meno dipendenti dalle importazio­ni, per le quali abbiamo soltanto una cosa da chiedere alle istituzion­i: non compromett­ere i requisiti qualitativ­i delle materie prime importate per non mettere a rischio la salute, penso al glifosate del Canada e alle aflatossin­e degli Usa».

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