L’editrice russa, Keret: Bologna parla di guerra
Domina il tema della guerra alla Bologna Children’s Bookfair, in cui ieri è stata incoronata la vincitrice dell’Astrid Lindgren Memorial Award, la svedese Eva Lindström. Se n’è parlato con una dei pochi editori russi presenti alla Fiera, Irina Balakhonova, fondatrice del marchio indipendente Samokat che vuole diffondere anche tra i più piccoli i valori democratici, protagonista con Paolo Nori e Fausta Orecchio (dell’editore Orecchio Acerbo) dell’incontro Guerra e pace. Balakhonova parla di un libro che ha pubblicato, C’era una casa a Mosca, di Alexandra Litvina e Anna Desnitskaya, tradotto in italiano da Donzelli, dove la vita di una casa di Mosca, dal 1902, è vista con gli occhi di un bambino. Anche la guerra. «Fino al 24 febbraio la mia generazione non sapeva che cosa volesse dire guerra — spiega —. Quello che si sta consumando in nostro nome è insopportabile. Tutti abbiamo difficoltà a realizzare che stiamo vivendo una catastrofe. La vivono i nostri amici e colleghi in Ucraina, ma anche noi in Russia, dove già è in corso una repressione. È difficile lavorare, ogni giorno compaiono nuove leggi che limitano la libertà. Sappiamo che si dovrebbe porre fine a questa “operazione speciale” che non abbiamo nemmeno il diritto di chiamare guerra, ma non sappiamo che cosa succederà dopo».
Che cosa possono dire le storie in tempo di guerra? Se lo è chiesto anche lo scrittore israeliano Etgar Keret, in una lectio. «Di solito non faccio eventi come questo — ha detto a margine dell’incontro — e so che se gli ucraini potessero scambiare il mio contributo con un elmetto lo apprezzerebbero molto di più. Sento quella che definirei una dissonanza cognitiva: Zelensky dice: salvateci; Biden: Putin è come Hitler. Eppure, a parte le sanzioni, non si fa niente. Non sono un politico, ma credo che questo ossimoro andrebbe risolto: quando vedi bambini, donne, anziani, bombardati, l’istinto dovrebbe essere di scendere in campo e porvi fine. Ma non accade, perché domina una narrativa estrema, una pressione a semplificare le cose, invece l’essenza dello storytelling è complicarle».