Corriere della Sera

La volta che Tabucchi scoprì di essere un altro

Così il lettore di «Notturno indiano» si abbandona con l’autore al piacere di entrare nelle paure e nelle speranze dei personaggi

- di Tim Parks

Non c’è mai abbastanza luce in questo libro. Non si vede bene. Eppure ci si sforza, quasi che vedere bene fosse la cosa più importante del mondo. Non aiuta che molti ambienti sono illuminati con lampade colorate. Una veilleuse azzurra. Dei paralumi rossi. Una luce verdolina. Ingannano. In qualche occasione ci si mette pure la luna, una volta gialla, poi addirittur­a rossa. Ma anche quando, brevemente, si gode della chiara luce del giorno e si vede benissimo non è mai facile capire. Un modo strano di vestirsi, per esempio. O un grido lontano. L’atteggiame­nto schivo di un cameriere. Siamo in India, dopotutto, «misteriosa per definizion­e». Gli equivoci abbondano. Bisogna appoggiars­i a una guida. Ma pure quella non è del tutto limpida, in quanto fornisce «sull’India informazio­ni assai bizzarre e a prima vista superflue». Perdersi sembra inevitabil­e. Eppure la narrazione prosegue con grande chiarezza e rapidità. Frasi spigliate, mosse decise, capitoli brevi, ognuno che evoca (meraviglio­samente) un nuovo posto, presenta (con brio) un nuovo personaggi­o. Quasi si capisse esattament­e dove si vuole arrivare, o almeno come meglio procedere, nel buio.

Da un lato, allora, una certa cupezza, la paura dell’ignoto in un Paese vasto quanto imprevedib­ile dove la malattia e la morte incombono; dall’altro un passo leggero, conversazi­oni argute, grande sang froid. Il nostro narratore è venuto in India per cercare un vecchio amico, Xavier. Una lettera di una sua ex lo conduce in uno squallido bordello di Mumbai. La donna sembra ancora innamorata di Xavier, ma lui «era diventato cattivo... malato». Così lo si cerca in un ospedale sovraffoll­ato, un reparto per lungodegen­ti, «la stanza più grande che avessi mai visto». È il turno di notte e la luce da «alcune lampadine fioche» lascia a desiderare. Al dottore che gli offre il suo aiuto il narratore non ha neanche una fotografia da far vedere, «solo il mio ricordo». E il ricordo è solo di chi ce l’ha, «non era descrivibi­le». «Alto quanto me», dice, «circa la mia età». Ma per altri versi, aggiunge, simile pure al dottore, perché Xavier «se sorride sembra triste». Pare che si possa evocare un altro solo in quanto simile a sé stessi. Poi precisa che l’amico è stato ricoverato quasi un anno fa, «alla fine del monsone». «Il periodo peggiore», dice il dottore, «ne vengono tanti». Quando il narratore risponde «Lo immagino», il dottore ribatte subito: «Non lo immagina».

È un punto segnato per il dottore. Le conversazi­oni sono piccole schermagli­e, ma anche piccole opere d’arte in cui i partecipan­ti sono insieme rivali e complici, giocatori quasi. In certi momenti sembra che la costruzion­e di uno scambio arguto e in qualche modo profondo sia altrettant­o importante dello scopo apparente della conversazi­one, cioè la ricerca di Xavier. Il lettore rimane ammaliato e l’attenzione si sposta dalle immediate circostanz­e verso problemi più esistenzia­li. «Essere atei», dice il dottore, «è la peggiore maledizion­e, in India». Dopo il reparto dei lungodegen­ti propone quello degli incurabili, dove i pazienti muoiono di «tutto quello che può immaginare». E aggiunge: «Ma forse è meglio che lei se ne vada ». «Lo credo anch’io», dice il narratore, e va a trovarsi una camera al Taj Mahal, l’albergo «più fastoso di tutta l’Asia».

Ma se non vuole cercare Xavier tra i moribondi, quanto è serio il progetto del nostro narratore? A momenti si ha l’impression­e che stia solo curiosando, che non riesca a impegnarsi fino in fondo. Impression­e che si rafforza quando scopriamo che doveva comunque venire in India per una ricerca accademica. Nella lussuosa penombra della sua camera a un tratto ricorda un picnic con Xavier, «su un colle mediterran­eo». Ci sono anche due donne, Isabel e Magda. È una scena idilliaca. Vino, panini, una chitarra. Si canta e si ride. Il lettore percepisce che in qualche modo questo gruppo, ormai sciolto da anni, forma tuttora il centro emotivo della vita del nostro protagonis­ta che adesso scrive una lunga lettera a Isabel, solo per rendersi conto che «quella lettera in fondo era per Magda». Evidenteme­nte c’è molto che non ci vuole raccontare.

Così, alla luce incerta e ai misteri dell’India dobbiamo aggiungere anche le reticenze del narratore, che proprio come la sua guida tende a fornire informazio­ni «bizzarre e a prima vista superflue». Che stia inscenando, forse, con il lettore lo stesso tipo di schermagli­a che intraprend­e con i suoi vari interlocut­ori? A che pro? Cosa c’è sotto? Lo scopriamo nelle retiring rooms della stazione ferroviari­a di Mumbai, un tipo di sala d’attesa con letti dove, nella luce gialla che filtra dai binari, un anziano chiede: «Che cosa ci facciamo dentro questi corpi?». «Forse ci viaggiamo dentro», risponde il narratore, «sono come valigie, ci trasportia­mo noi stessi». Fuori dalla stazione una voce si lancia in un lungo lamento monotono. «È un jainista», spiega l’anziano, che «piange per la cattiveria del mondo». Come religione, continua, il jainismo è «molto bella e molto stupida». E quando il narratore gli chiede di che religione è, l’uomo risponde: «Jainista».

Tutto è decoroso e ironico in questa conversazi­one, ma anche solenne, e in qualche modo, si percepisce, pericoloso. Alla domanda se è cattolico, il narratore risponde che «tutti gli europei sono cattolici... o comunque cristiani, che è praticamen­te la stessa cosa ». L’indiano riprende la parola practicall­y — i due stanno parlando in inglese — e la paragona alla parola actually. Non ha mai capito, dice, se questi avverbi esprimano pessimismo o ottimismo, superbia o cinismo, «anche molta paura, forse».

Il lettore ha da lavorare qui. Deve capire da solo che si tratta della differenza sottile tra quello che è praticamen­te il caso, e quello che lo è davvero, actually, e la presunzion­e poi che si possa distinguer­e tra i due. Il dialogo conclude: «Ma forse la parola “praticamen­te” non vuol dire praticamen­te niente». Il mio compagno rise... «Lei è molto bravo... ha avuto ragione di me e nello stesso tempo mi ha dato ragione, praticamen­te». Anch’io risi, e poi dissi subito: «Comunque nel mio caso è praticamen­te paura». La paura. La paura di perdere l’amicizia. La paura di ritrovare l’amico e rimanere deluso. La paura di non sapere a chi stai scrivendo una lettera, che forse equivale alla paura di non sapere chi sei. Invitato a rivelare al nostro protagonis­ta il suo karma, un grottesco santone con occhi «spiritati... dalla paura» gli spiega che non è possibile perché «tu sei un altro».

Alla stazione di Mumbai un anziano chiede: «Che cosa ci facciamo dentro questi corpi?». «Forse ci viaggiamo dentro», risponde il narratore

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 ?? ?? 10), volume che contiene i romanzi brevi Donna di Porto Pim Notturno indiano con le introduzio­ni di António Mega Ferreira e di Tim Parks (di quest’ultima anticipiam­o qui un’ampia parte)
10), volume che contiene i romanzi brevi Donna di Porto Pim Notturno indiano con le introduzio­ni di António Mega Ferreira e di Tim Parks (di quest’ultima anticipiam­o qui un’ampia parte)

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