La volta che Tabucchi scoprì di essere un altro
Così il lettore di «Notturno indiano» si abbandona con l’autore al piacere di entrare nelle paure e nelle speranze dei personaggi
Non c’è mai abbastanza luce in questo libro. Non si vede bene. Eppure ci si sforza, quasi che vedere bene fosse la cosa più importante del mondo. Non aiuta che molti ambienti sono illuminati con lampade colorate. Una veilleuse azzurra. Dei paralumi rossi. Una luce verdolina. Ingannano. In qualche occasione ci si mette pure la luna, una volta gialla, poi addirittura rossa. Ma anche quando, brevemente, si gode della chiara luce del giorno e si vede benissimo non è mai facile capire. Un modo strano di vestirsi, per esempio. O un grido lontano. L’atteggiamento schivo di un cameriere. Siamo in India, dopotutto, «misteriosa per definizione». Gli equivoci abbondano. Bisogna appoggiarsi a una guida. Ma pure quella non è del tutto limpida, in quanto fornisce «sull’India informazioni assai bizzarre e a prima vista superflue». Perdersi sembra inevitabile. Eppure la narrazione prosegue con grande chiarezza e rapidità. Frasi spigliate, mosse decise, capitoli brevi, ognuno che evoca (meravigliosamente) un nuovo posto, presenta (con brio) un nuovo personaggio. Quasi si capisse esattamente dove si vuole arrivare, o almeno come meglio procedere, nel buio.
Da un lato, allora, una certa cupezza, la paura dell’ignoto in un Paese vasto quanto imprevedibile dove la malattia e la morte incombono; dall’altro un passo leggero, conversazioni argute, grande sang froid. Il nostro narratore è venuto in India per cercare un vecchio amico, Xavier. Una lettera di una sua ex lo conduce in uno squallido bordello di Mumbai. La donna sembra ancora innamorata di Xavier, ma lui «era diventato cattivo... malato». Così lo si cerca in un ospedale sovraffollato, un reparto per lungodegenti, «la stanza più grande che avessi mai visto». È il turno di notte e la luce da «alcune lampadine fioche» lascia a desiderare. Al dottore che gli offre il suo aiuto il narratore non ha neanche una fotografia da far vedere, «solo il mio ricordo». E il ricordo è solo di chi ce l’ha, «non era descrivibile». «Alto quanto me», dice, «circa la mia età». Ma per altri versi, aggiunge, simile pure al dottore, perché Xavier «se sorride sembra triste». Pare che si possa evocare un altro solo in quanto simile a sé stessi. Poi precisa che l’amico è stato ricoverato quasi un anno fa, «alla fine del monsone». «Il periodo peggiore», dice il dottore, «ne vengono tanti». Quando il narratore risponde «Lo immagino», il dottore ribatte subito: «Non lo immagina».
È un punto segnato per il dottore. Le conversazioni sono piccole schermaglie, ma anche piccole opere d’arte in cui i partecipanti sono insieme rivali e complici, giocatori quasi. In certi momenti sembra che la costruzione di uno scambio arguto e in qualche modo profondo sia altrettanto importante dello scopo apparente della conversazione, cioè la ricerca di Xavier. Il lettore rimane ammaliato e l’attenzione si sposta dalle immediate circostanze verso problemi più esistenziali. «Essere atei», dice il dottore, «è la peggiore maledizione, in India». Dopo il reparto dei lungodegenti propone quello degli incurabili, dove i pazienti muoiono di «tutto quello che può immaginare». E aggiunge: «Ma forse è meglio che lei se ne vada ». «Lo credo anch’io», dice il narratore, e va a trovarsi una camera al Taj Mahal, l’albergo «più fastoso di tutta l’Asia».
Ma se non vuole cercare Xavier tra i moribondi, quanto è serio il progetto del nostro narratore? A momenti si ha l’impressione che stia solo curiosando, che non riesca a impegnarsi fino in fondo. Impressione che si rafforza quando scopriamo che doveva comunque venire in India per una ricerca accademica. Nella lussuosa penombra della sua camera a un tratto ricorda un picnic con Xavier, «su un colle mediterraneo». Ci sono anche due donne, Isabel e Magda. È una scena idilliaca. Vino, panini, una chitarra. Si canta e si ride. Il lettore percepisce che in qualche modo questo gruppo, ormai sciolto da anni, forma tuttora il centro emotivo della vita del nostro protagonista che adesso scrive una lunga lettera a Isabel, solo per rendersi conto che «quella lettera in fondo era per Magda». Evidentemente c’è molto che non ci vuole raccontare.
Così, alla luce incerta e ai misteri dell’India dobbiamo aggiungere anche le reticenze del narratore, che proprio come la sua guida tende a fornire informazioni «bizzarre e a prima vista superflue». Che stia inscenando, forse, con il lettore lo stesso tipo di schermaglia che intraprende con i suoi vari interlocutori? A che pro? Cosa c’è sotto? Lo scopriamo nelle retiring rooms della stazione ferroviaria di Mumbai, un tipo di sala d’attesa con letti dove, nella luce gialla che filtra dai binari, un anziano chiede: «Che cosa ci facciamo dentro questi corpi?». «Forse ci viaggiamo dentro», risponde il narratore, «sono come valigie, ci trasportiamo noi stessi». Fuori dalla stazione una voce si lancia in un lungo lamento monotono. «È un jainista», spiega l’anziano, che «piange per la cattiveria del mondo». Come religione, continua, il jainismo è «molto bella e molto stupida». E quando il narratore gli chiede di che religione è, l’uomo risponde: «Jainista».
Tutto è decoroso e ironico in questa conversazione, ma anche solenne, e in qualche modo, si percepisce, pericoloso. Alla domanda se è cattolico, il narratore risponde che «tutti gli europei sono cattolici... o comunque cristiani, che è praticamente la stessa cosa ». L’indiano riprende la parola practically — i due stanno parlando in inglese — e la paragona alla parola actually. Non ha mai capito, dice, se questi avverbi esprimano pessimismo o ottimismo, superbia o cinismo, «anche molta paura, forse».
Il lettore ha da lavorare qui. Deve capire da solo che si tratta della differenza sottile tra quello che è praticamente il caso, e quello che lo è davvero, actually, e la presunzione poi che si possa distinguere tra i due. Il dialogo conclude: «Ma forse la parola “praticamente” non vuol dire praticamente niente». Il mio compagno rise... «Lei è molto bravo... ha avuto ragione di me e nello stesso tempo mi ha dato ragione, praticamente». Anch’io risi, e poi dissi subito: «Comunque nel mio caso è praticamente paura». La paura. La paura di perdere l’amicizia. La paura di ritrovare l’amico e rimanere deluso. La paura di non sapere a chi stai scrivendo una lettera, che forse equivale alla paura di non sapere chi sei. Invitato a rivelare al nostro protagonista il suo karma, un grottesco santone con occhi «spiritati... dalla paura» gli spiega che non è possibile perché «tu sei un altro».
Alla stazione di Mumbai un anziano chiede: «Che cosa ci facciamo dentro questi corpi?». «Forse ci viaggiamo dentro», risponde il narratore