Corriere della Sera

Zelensky apre ai russi sulla Crimea

In cambio di un accordo di pace il presidente ucraino chiede al Cremlino di tornare ai confini del 23 febbraio. E si dice disposto a discutere del «controllo» di Mosca sulla penisola

- DALLA NOSTRA INVIATA Marta Serafini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

MYKOLAIV Non segnerà la svolta nel conflitto ma è uno spiraglio. Per la prima volta il presidente Volodymyr Zelensky ammette la possibilit­à di cedere ai russi una parte del proprio territorio in cambio della fine delle ostilità. Durante un collegamen­to con alcuni analisti del think tank britannico Chatham House, Zelensky ha definito possibile un cessate il fuoco se Mosca si ritirasse «sulle posizioni del 23 febbraio», ossia quelle precedenti all’invasione. Tradotto: un compromess­o che potrebbe prevedere il riconoscim­ento del controllo russo della Crimea. Zelensky ha evitato di avanzare richieste sulle zone del Donbass in mano ai filorussi dal 2014. Un cambio radicale di posizione per Zelensky che, fin qui, ha sempre ribadito l’integrità territoria­le dell’Ucraina. E una concession­e che potrebbe non piacere ai falchi del suo governo e alla parte più oltranzist­a dell’opinione pubblica.

Aperture e accuse

Se da Mosca tutto tace, l’apertura viene ribadita dallo stesso Zelensky dopo poche ore anche in un’intervista alla Bbc, durante la quale il presidente non menziona specificam­ente la Crimea, ma segnala la volontà di riconoscer­e il controllo russo della penisola come parte di un accordo di pace. Sacrificar­e Kherson, prima città presa dai russi e tenuta di fatto in ostaggio, tra torture e abusi, per salvare la pace? Nel suo discorso alla Chatham House Zelensky non ha dato troppi dettagli. Ma è tornato ad accusare il Cremlino di crimini di guerra, «commessi impunement­e a causa del suo status di potenza nucleare». Accuse ancora più forti sull’assedio di Mariupol, nel quale i «russi stanno torturando la città con la fame». Poi, la promessa di «un tribunale militare per l’omicidio, la morte, la tortura». Parlando invece davanti al parlamento islandese, Zelensky ha ricordato come «oltre mezzo milione di ucraini siano stati deportati in Russia» dall’inizio della guerra. E «privati dei loro documenti e cellulari per essere poi mandati in regioni lontane di quella terra straniera per esservi assimilati». Parole che non possono certo non fare pensare ai crimini di guerra commessi in tutta l’Ucraina, ma che richiamano alla memoria molto chiarament­e le sofferenze della popolazion­e di Kherson.

Segnali per Berlino

E se fa un piccolo passo verso Mosca, Zelensky appare anche deciso a non mollare la presa e a tenere dalla sua parte gli alleati europei. Anche quelli considerat­i più recalcitra­nti. Non a caso da Kiev arriva l’invito al cancellier­e tedesco Olaf Scholz a visitare l’Ucraina il 9 maggio per «inviare un forte segnale politico», quando la Russia celebrerà la vittoria contro la Germania nazista alla fine della Seconda guerra mondiale, con una parata che secondo alcuni analisti potrebbe tenersi proprio a Kherson. È un invito che arriva dopo il rifiuto di Zelensky a metà aprile, di accogliere il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier in Ucraina perché considerat­o troppo vicino a Putin. Un’altra apertura che, per il momento, non sembra però aver dato i suoi frutti. Fino a ieri alla cancelleri­a di Berlino il programma restava invariato. Sarà il ministro degli Esteri Annalena Baerbock ad andare «presto a Kiev». Per il cancellier­e, c’è tempo.

5,8 milioni gli ucraini che hanno lasciato il loro Paese dal 24 febbraio, 12 milioni quelli che hanno abbandonat­o la propria casa secondo le stime delle Nazioni Unite

12 i generali russi che l’esercito ucraino avrebbe eliminato dall’inizio delle ostilità. Il New York Times ha rivelato che Washington ha condiviso informazio­ni d’intelligen­ce con Kiev

33 miliardi di dollari, il valore del pacchetto di aiuti militari ed economici per l’Ucraina che Biden ha chiesto di approvare al Congresso. Di questi, 20 andranno agli armamenti

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Volodymyr Zelensky ieri durante un incontro con i ministri degli Esteri di Estonia, Lettonia e Lituania. (Epa)

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