«I miei progetti con la testa sempreverde»
Nello studio bolognese di Emilio Ambasz precursore del dialogo architettura-natura
Il primo impatto è straniante. Una maestosa villa storica nel verde ai margini di Bologna è la sede dello studio di Emilio Ambasz, architetto argentino di nascita ma da oltre trent’anni residente per metà del tempo in Italia («Il resto lo passo tra New York e il sud della Francia»), da dove tira le fila di progetti - ambitissimi dai committenti - famosi perché antesignani dell’integrazione tra architettura e natura. «Ho figli, figliastri. E bastardini», dice scherzando, ma non troppo, sulle dilaganti architetture verdi di oggi.
Lo studio? Nessun indizio. Invece, una teoria di saloni, scalinate, statue, oggetti d’arte. A un tratto la scena cambia: stanze bianche o tutte nere semivuote e una scala doppia (che evoca il suo progetto più famoso, l’edificio a gradoni terrazzati a Fukuoka in Giappone) conduce alla sala riunioni e al suo studio privato, a cui ci proibisce però anche solo di gettare un’occhiata: «Ho in corso un lavoro per un’ambasciata, secretato», spiega con gentile fermezza. Quanti collaboratori? «Uno solo», risponde, spiazzante. «I progetti nascono nella mia testa sotto forma di immagini. Che rielaboro di continuo e metto su carta quando sento che sono arrivati alla definizione. Quindi posso farlo da solo e ovunque», spiega. L’atto finale è un disegno: «In sezione, su carta A4, perfetto come fosse fatto con un regolo, pronto per essere ingegnerizzato. Che poi butto». Paradossale, in un ambito dove i documenti di progetto sono archivio e memento: «Non mi interessa lasciare una traccia. Sono proiettato verso il futuro». E la tecnologia? «La uso. Mi consente oggi di lavorare in questo modo. L’edificio a Fukuoka impegnò 80 persone: si faceva tutto a mano e ogni variazione significava tempo e risorse. Per l’ospedale di Mestre, quasi 20 anni dopo, mi è bastato un unico collaboratore. Così posso continuare a definirmi studio e non impresa».
La vena di sottile ironia non gli manca persino quando ragiona sull’evoluzione degli spazi domestici: «Sono dell’idea che un uomo e una donna non possano vivere sempre assieme. Vedrei due grandi monolocali adiacenti, con una porta in mezzo, dove ciascuno ha il suo posto e l’altro entra solo se autorizzato. E un terrazzo in comune. Le unioni durerebbero di più», afferma, raccontando tra le righe di aver avuto sei compagne, e di essere un solitario: «Meglio un caffè informale di una cena di rappresentanza», dice ricordando quando rifiutò – sostiene, con civetteria - il ruolo di guest editor di Domus.
A Bologna arrivò a metà anni ’70, grazie al designer Giancarlo Piretti con il quale creò Vertebra, prima sedia da ufficio ergonomica: «Ho iniziato 50 anni fa le architetture verdi: poche commesse e tanto scetticismo. Allora l’industrial design mi serviva per mantenermi:
Il metodo di lavoro «Ogni mio disegno è perfetto, già pronto a essere ingegnerizzato. Poi, butto via tutto»
inventavo un prodotto, lo ingegnerizzavo, costruivo il prototipo, lo testavo. L’azienda aveva il vantaggio di decidere senza impegnare due anni per lo sviluppo: c’era tutto, a volte persino stampo e progetto di comunicazione», rievoca. «Gli imprenditori allora erano illuminati. Pochi soldi, ma nel prodotto scommettevano, convinti che esistesse un mercato capace di apprezzarlo. Oggi a capo di quelle aziende ci sono i figli: master ad Harvard, guardano solo alla distribuzione pensando che per vendere basti un divano dal colore diverso». Oggi, dopo mezzo secolo di successi e di onorificenze, continua i suoi progetti «verdi»: «Il prossimo è già pronto e sta per arrivare il finanziamento pubblico: una “casa della cultura” in Andalusia, mia esposizione permanente e sede di mostre temporanee di architettura» dice, raccontando come anche qui, ovviamente, ci sarà un tetto «vegetale»: «Spesso dico che ho ricoperto tutto di verde per non mostrare quanto l’edificio
Gli spazi domestici «Una coppia non può vivere sempre insieme: meglio avere due monolocali adiacenti»
sia mediocre», scherza. In realtà ogni edificio è una pietra miliare: «A chi mi dice che il mio palazzo a Fukuoka è troppo visto, rispondo che è un progetto chiave per le 35 mila piante diventate oggi 50 mila, la temperatura locale abbassata grazie al verde, ma soprattutto il 100% di verde sottratto al terreno e restituito alla città». E dire che un certo mondo dell’architettura fino a poco tempo fa guardava Ambasz con sufficienza: «Mi definivano un paesaggista», dice. «Certo, oggi la libertà di creare un progetto forte a cui tanti si ispireranno spesso non c’è. Il potere poetico dell’architettura è stato sostituito dal potere politico: sono fortunato di essere nato in un’altra epoca».