LA POLITICA ECONOMICA EUROPEA UN MOSAICO CHE ANCORA NON C’È
Mentre la risposta alla pandemia è stata rapida e compatta, ora l’Unione non si sta muovendo con efficacia e non sta spiegando ai cittadini come li proteggerà dalla crisi
In un’intervista al Corriere della Sera lo stesso giorno Christine Lagarde disse che la Banca centrale europea era pronta a tutto pur di sostenere i governi nel loro sforzo di proteggere i cittadini. Passarono poche settimane e la Commissione fu incaricata di comprare vaccini per tutti, in modo da prevenirne l’accaparramento da parte dei Paesi forti a spese dei deboli. I politici avevano capito che dovevano mettere progetti e risorse in comune, o milioni di europei si sarebbero accodati ai pifferai di Hamelin del sovranismo. Dovevano cooperare o l’Unione sarebbe andata in pezzi.
Anche adesso siamo a settanta giorni da una deflagrazione storica, ma l’Europa balbetta. Certamente i governi approvano un’ondata dopo l’altra di sanzioni contro Mosca, in maniera sempre più esitante. Certamente mandiamo armi all’Ucraina, con i dubbi visibili a tutti. Nel frattempo la proposta della Commissione di sospendere i dazi sulle importazioni dall’Ucraina è arrivata — per esempio — con un ritardo di due mesi, al punto che i governi e l’europarlamento devono ancora approvarla: stiamo tassando il Paese brutalmente aggredito da Vladimir Putin, mentre cerca di spedirci i pochi beni che riesce ancora a vendere malgrado i porti sotto assedio e le ferrovie bombardate.
Ma soprattutto, l’Europa non sta spiegando ai propri cittadini come cercherà di proteggerli dalle conseguenze di questa guerra. Una risposta all’altezza non si è neppure ancora profilata. A Bruxelles, molto in sordina, si lavora a livello tecnico per riorganizzare la spesa dei 200 miliardi non ancora impegnati del Recovery Fund (o di quel che ne resterà): comunque non abbastanza per un continente che deve riprogettare il proprio modello di reti dell’energia. Tra qualche giorno arriverà in proposito anche il secondo «Repower Eu», un pacchetto di raccomandazioni. Tutte queste appaiono però tessere isolate di un mosaico che ancora non c’è. Manca una risposta coerente di politica industriale allo choc sulle materie prime. Manca una visione di politica economica europea che affronti le ricadute dell’inflazione di guerra e di una frenata produttiva che rischia di diventare recessione. Manca un’idea riconoscibile di bilancio comune, che permetta ai governi di affrontare una difesa europea da costruire da zero o gli acquisti di gas liquefatto e le infrastrutture di trasformazione e trasporto dell’energia.
Al centro del sistema si avverte un vuoto di potere e di visione. Forse in via provvisoria, il Paese più importante non incarna più la leadership del club e persino i rapporti fra il cancelliere Olaf Scholz e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, tedesca come lui, sembrano tutt’altro che splendidi. Intanto ognuno dei governi, comprensibilmente preoccupato, spedisce emissari in capitali lontane per negoziare al più presto partite di gas liquefatto. Ma lo stiamo facendo tutti attraverso aste di fatto che mettono gli europei gli uni contro gli altri e l’Europa contro il resto del mondo, facendo lievitare i prezzi internazionali. Allo stesso modo ci contendiamo i pochi rigassificatori galleggianti disponibili. Alla lunga questa corsa al «ciascun per sé» rischia dunque di diventare un gioco a somma negativa, in cui l’Europa e il mondo intero finiranno per pagare di più l’energia e l’inflazione continuerà a erodere il potere d’acquisto delle persone. Non è neanche chiaro se noi europei stiamo facendo qualcosa — e cosa — per aiutare gli ucraini a esportare via terra i loro cereali per 400 milioni di persone in Africa e nel Medio Oriente, in modo da calmierare i prezzi globali del cibo.
La guerra accelera così la fine di un ciclo di bassa inflazione e tassi d’interesse in calo che durava dall’avvento della globalizzazione negli anni 80. Un’enorme marea sta cambiando direzione e inevitabilmente anche la Banca centrale europea si prepara a invertire la rotta che aveva tenuto l’Italia al riparo per anni, malgrado la crescita anemica e l’enormità del debito pubblico. Si inizia così a notare che questo conflitto è destinato a produrre conseguenze economiche asimmetriche: l’Europa è più esposta degli Stati Uniti e, in Europa, i Paesi fragili e indebitati più di quelli finanziariamente solidi. Non per niente l’Italia è il Paese dell’area euro nel quale il costo dell’indebitamento è salito di più nell’ultimo mese ed è il solo in cui l’economia si sia leggermente contratta nei primi tre mesi del 2022. Senza la credibilità di Mario Draghi sarebbe andata anche peggio ma, come dice il premier stesso, «io sono umano».
È in questo contesto che a Francoforte da un paio di settimane gli economisti della Bce lavorano a possibili soluzioni tecniche di quello che, ai tempi della crisi dell’euro, si sarebbe chiamato uno «scudo salva-spread»: un nuovo meccanismo che tenga al riparo l’Italia sui mercati, mentre la banca centrale inizia ad alzare i tassi forse già da luglio. Probabilmente verrà annunciato in giugno e andrà misurato nelle condizioni richieste ai governi per beneficiarne. Ma la Bce è sempre stata efficace solo nel quadro di un sistema europeo efficace, mai slegata e isolata da esso. E l’Italia ha tenuto la rotta solo quando, anche in vista delle eterne bufere della sua democrazia, non ha perso la bussola.
Quadro frammentato Ci sono raccomandazioni e iniziative, ma manca una risposta coerente di strategia industriale
Tutti contro tutti Alla lunga l’attuale corsa al «ciascun per sé» rischia di diventare un gioco a somma negativa