QUANDO LORENZO MONDO PARLAVA IN UN PIEMONTESE ESTINTO
Caro Aldo,
Lorenzo Mondo da alcuni giorni ci ha lasciati per il Cielo. L’ho incontrato una volta sola, un pomeriggio di inizio estate, a Roma, tanti anni fa. Nella mia casa si teneva la festa per suo nipote, il figlio di Monica, che quel giorno aveva ricevuto la prima Comunione. Parlammo di Fenoglio e di Pavese. Del primo è stato lo scopritore, anche se poi altri, come Maria Corti, hanno contribuito a rivelazioni ulteriori. Pavese non fu una rivelazione, ma Lorenzo mi aprì a profondità inaspettate. Quell’antico ragazzo è un libro che rileggo continuamente. Mondo era alto, signorile, come può esserlo un piemontese autentico. Riservato, pesava le parole. In lui trovavi qualcosa di antico e di moderno assieme.
mons.Massimo Camisasca
Caro vescovo Massimo,
Lorenzo Mondo era uno dei più importanti italianisti del nostro Paese, ed era uno dei due vicedirettori della Stampa (l’altro era Luigi La Spina, anche lui uomo di cultura). Partecipava alle riunioni, chiudeva le pagine in tipografia, correggeva in modo a volte burbero gli articoli che non lo convincevano, cioè tutti quelli in cui affiorasse la retorica, abituato com’era a considerare importante qualsiasi parola. Nessuno conosceva le sue idee politiche. Il direttore era Gaetano Scardocchia, mi assunse che avevo appena compiuto ventidue anni, e mi spiegò che in redazione tutti si davano del tu e si chiamavano per nome. Così una delle prime sere entrai nell’ufficio di Mondo — lo stesso di Carlo Casalegno, il vicedirettore assassinato undici anni prima dalle Brigate rosse — con la bozza della pagina da mostrargli; e siccome lui rimaneva chino su certe carte, lo salutai con uno squillante: «Ciao, Lorenzo!». Mondo sollevò la testa e mi guardò. Non disse una parola, ma nel suo torinese muto (il torinese del 1988, una lingua oggi purtroppo estinta) stava dicendo: «E tu chi c. sei?». D’istinto riformulai il saluto: ciao, professore. Era alto e magro ed era quasi identico a mio nonno paterno — ragazzo del ’99 che si chiamava pure lui Lorenzo —, e quindi mi appariva quasi una figura di famiglia; conobbi i suoi figli, Monica e Alessandro; ma non ebbi mai con lui quella confidenza che peraltro concedeva a pochissimi. In redazione comunque era molto rispettato e stimato da tutti. Ci piaceva che una persona di sterminata cultura facesse il nostro mestiere, di cui aveva chiarissima una cosa anch’essa purtroppo talora perduta: i giornali devono raccontare il mondo così com’è, non come dovrebbe essere.
Le carte su cui era chino quella sera erano il diario segreto di Cesare Pavese, in cui lo scrittore divenuto icona del comunismo annotava frasi piene di ammirazione per Hitler e lamentava che noi italiani «non sappiamo essere atroci». La Stampa lo pubblicò nell’estate del 1990 e lo scoop fu ripreso in tutta Europa. Ciao, professore.