Corriere della Sera

BURQA A KABUL MA IL MONDO NON GUARDA PIÙ

- di Viviana Mazza

Un nuovo decreto dei talebani suggerisce alle donne di indossare il burqa. È presentato come un consiglio, con conseguenz­e per gli uomini della famiglia: alla prima trasgressi­one saranno ammoniti, alla seconda convocati al Ministero per la Prevenzion­e del Vizio e la Promozione della Virtù, alla terza finiranno in carcere per tre giorni, poi in tribunale e se hanno un impiego statale lo perderanno. Non serviva questo decreto per dimostrare che i talebani non sono cambiati: da agosto, tornati al potere in Afghanista­n, ne hanno offerto molti esempi. Ma se non esitano a imporre il burqa, simbolo dei diritti negati alle donne afghane, forse è anche perché sanno che l’attenzione del mondo è lontana. Lo fu pure nei primi cinque anni di regime dei talebani dal 1996 al 2001. Solo dopo l’11 settembre il mondo si indignò per la loro misoginia. «Sembra che i diritti delle donne siano una questione stagionale e questa non è la stagione giusta», dice Nadia Hashimi, scrittrice afghana-americana, che ha appena parlato al telefono con una cugina a Kabul. La cugina è in viaggio con suo fratello, indossa un’ampia sciarpa sul capo e un «chapan», un mantello che nasconde le forme del corpo. Per ora non sente l’obbligo di coprirsi il viso (molte afghane lo fanno già, ma nelle città tante altre, come lei, si coprono solo il capo) ed è più terrorizza­ta dai bombardame­nti, dalla povertà, dai divieti di frequentar­e la scuola per le ragazze dai 12 anni in su. Dopo il bombardame­nto recente di una scuola, sua figlia le ha detto che comunque non ci vuole più andare. «Il punto è ancora una volta l’incertezza. Con questo decreto i talebani hanno spazio per punire come vogliono. Ed è un modo sfacciato per controllar­e le donne. La scorsa settimana ho sentito dire che negheranno loro anche la patente». D’altronde, il decreto aggiunge che se le donne non hanno importanti ragioni per uscire, è meglio che restino in casa.

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