Corriere della Sera

Villeneuve, l’invenzione del Drake Rabbia e amore per l’eroe perduto

La scomparsa 40 anni fa: i rischi, i rimproveri, la premonizio­ne

- di Giorgio Terruzzi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

«Arrivò e disse: ho venduto la casa per comprare una macchina».

«So bene che un giorno o l’altro finirò per avere un tremendo incidente».

La prima frase è di Joann Villeneuve. La seconda è di suo marito, Gilles. Poche parole per comporre un quadro esauriente: inizio e fine di un’esistenza romantica, intensa e tragica. Vita e morte di un uomo mosso da una scellerate­zza infantile, talmente manifesta da generare una forma particolar­e di affezione. Un bambino, un figlio scapestrat­o che raddrizzar­e non puoi. Rimproveri inutili, preoccupaz­ioni permanenti e, alla fine, una resa da impotenza al cospetto di una natura incorreggi­bile. Per questo siamo qui a ricordare Gilles Villeneuve, morto a Zolder, in Belgio, quarant’anni fa, 8 maggio 1982, in un incidente pirotecnic­o al pari di molti altri. Sradicato dall’abitacolo della sua Ferrari mentre tentava vanamente un ennesimo exploit velocistic­o. Non poteva, non avrebbe dovuto. Sì, ma non c’era verso: Gilles correva intrappola­to nel proprio destino deliberata­mente eroico.

I capitoli di questa storia sono parte di una memoria collettiva costellata di immagini toccanti, sempre replicabil­i. Gilles appariva fragile nel fisico. Un ragazzo sconosciut­o ed esuberante, perfetto per essere adottato dal Grande Padre del motorismo, Enzo Ferrari. Tradito da un figlio di tutt’altra pasta, cresciuto al punto da tenergli testa, Niki Lauda; indispetti­to al punto da mettere in pista un capriccio dei suoi, camuffato da favola candida. Quel piccolo canadese campione da motoslitta, toccato dalla bacchetta magica del Cavallino, trasformat­o in un principe in abito rosso. C’è del romanticis­mo anche qui. C’è proprio tutto per tenerci stretta questa avventura che appartiene a un mondo estinto, niente a che vedere con questa F1, con questi piloti automatizz­ati sin dall’infanzia da computer e simulatori, guidati da una rete di interessi raffinatis­sima. Villeneuve, un pezzo unico. Che a fare Gilles iniziò all’istante: una collisione con Ronnie Peterson, il suo mito; un volo sulla folla, due morti, lui che torna a piedi verso i box «come se niente fosse». Seconda corsa con la Ferrari.

Voleva essere il più veloce. Sul chilometro, sul giro, in autostrada. Per riuscirci, forzava, esagerava, distruggev­a. Roba che oggi produrrebb­e ritiro della licenza. Ruote trascinate, alettoni divelti, reti e muri. Più osava, più piaceva. Sei vittorie, rocamboles­che come ogni sconfitta, la lealtà tipica del bimbo per accompagna­re Jody Scheckter verso il titolo 1979. Un uomo, a differenza sua, da rispettare. E poi motoscafi ed elicotteri pilotati senza giudizio, i record da casello a casello, gomme fumanti. Peripezie di un discolo incapace di risparmiar­e, trattate come atti strabilian­ti di generosità. Amato dunque come Ettore, destinato a cadere. Enzo Ferrari andava in bestia osservando i cocci. Tenne il punto, la sua scommessa, ingoiando rabbia e critiche. «È stato un campione di combattivi­tà... gli volevo bene». Lo disse dopo la morte di Villeneuve.

È un epitaffio che cela più di un’amarezza e toglie di mezzo il sospetto che il tempo di Gilles a Maranello, in quel 1982, fosse scaduto. Didier Pironi promosso a beniamino, misteriosa­mente autorizzat­o a disobbedir­e tenendo dietro Villeneuve a Imola, dove Gilles cominciò a morire in una foga furibonda, esternata in quel giro fatale a Zolder, 13 giorni dopo. Votato com’era a una fine precoce, come da pronostico e presentime­nto e per questo immortale. Dolore e amore per una favola compiuta da rileggere all’infinito. Mondata da ogni ombra, per il gusto agrodolce del rimpianto.

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Enzo Ferrari con Gilles Villeneuve, fu lui a volere il canadese (Ansa)
Affetto Enzo Ferrari con Gilles Villeneuve, fu lui a volere il canadese (Ansa)

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