Corriere della Sera

Debito, fame, rivolte Lo Sri Lanka «caccia» il premier eterno

Rajapaksa si dimette, il fratello presidente no

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Un mese di proteste, scontri di piazza, violenze. Alla fine, il primo ministro Mahinda Rajapaksa ha lasciato. Ma l’Isola di Smeraldo, lo Sri Lanka, resta avvolta da risentimen­to e incertezza: perché l’obiettivo primario della rabbia popolare, Gotabaya Rajapaksa, il presidente (e fratello minore del premier), resta trincerato nel suo palazzo sul lungomare di Colombo, la capitale: «Non me ne vado».

L’ex colonia britannica, l’antica Ceylon, indipenden­te dal 1948, sta attraversa­ndo la peggiore delle sue crisi economiche: le riserve in valuta estera sono virtualmen­te esaurite dopo due anni di pandemia e turismo azzerato. I prezzi degli alimentari sono aumentati esponenzia­lmente, così come quelli dell’energia, peraltro sottoposta a continue interruzio­ni. E i cittadini incolpano la dinastia al potere da un ventennio: i Rajapaksa, colpevoli di «essersi arricchiti sulla nostra pelle», urlano i manifestan­ti affrontati dai sostenitor­i del governo, mentre la polizia in assetto anti sommossa fatica a contenere le opposte fazioni.

Il bilancio ieri è stato drammatico: tre morti, compreso un deputato del partito di maggioranz­a, e un centinaio di feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni. Lo Sri Lanka non viveva giornate così drammatich­e dalla fine della guerra civile, nel 2009, quando a guidare il Paese (ma come presidente) c’era proprio Mahinda Rajapaksa, oggi 76 anni. Allora, il capo dello Stato fu accusato di aver posto fine alla lunga ribellione delle Tigri Tamil, nel Nord del Paese, con metodi spicci e violazioni dei diritti umani incarceran­do (o facendo sparire) anche migliaia di civili di fede indù nel Paese a maggioranz­a buddhista.

Soltanto nel 2015 Mahinda fu messo da parte per tornare comunque al potere come braccio destro del fratello più piccolo Gotabaya, eletto al vertice dello Stato. Ma le accuse di «corruzione» — drasticame­nte smentite dal clan dei Rajapaksa — sono rimaste sullo sfondo in un sistema di potere clientelar­e che ha favorito gli alleati della «famiglia regnante».

Il sistema ha cominciato a mostrare limiti e crepe quando investimen­ti sbagliati e un’esposizion­e debitoria con l’estero (Colombo deve 5 miliardi di dollari solo alla Cina) hanno aggravato problemi struttural­i già presenti: nel 2017 il porto di Hambantota, il secondo dell’isola, era stato ceduto in gestione per 99 anni a una società di Pechino non potendo il governo rispettare le previste rate di rimborso.

A gennaio, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi è arrivato in visita a Colombo e il governo locale ha provato a rinegoziar­e tutte le scadenze, con poca fortuna: nel giro di settimane, inflazione e prezzi in salita hanno ridotto sul lastrico gran parte della giovane classe media, facendo salire la tensione fino alla rottura.

Dopo un mese di sit-in e scontri davanti al palazzo presidenzi­ale, i manifestan­ti hanno ottenuto le dimissioni dell’ormai odiato premier. Ma il sangue versato rischia di essere soltanto un piccolo tributo in attesa di eventi più drammatici: Gotabaya Rajapaksa, spingendo il fratello maggiore a «togliersi dal palcosceni­co» pensava di aver salvato il proprio posto. Ma la folla non ha cessato di chiedere anche a lui di lasciare, una volta per tutte, il potere.

Le tende e i cartelli «Gota vai via» sono stati rimossi da centinaia di facinorosi progoverno, travolgend­o i cordoni di poliziotti. Ma il risentimen­to non è cancellato.

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L’addio Mahinda Rajapaksa, 76 anni

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