IMPROVVISAZIONI
La kermesse Torna Piano City Milano. La musicista è tra i nomi di questa edizione che, come sempre, mescola i generi. E le generazioni ANAT FORT: IL JAZZ MI FA SENTIRE LIBERA
Che cosa suonerà? «Ad essere sincera, non lo so; qualunque cosa le dicessi adesso avrebbe un’attendibilità dell’1%...» Sorride Anat Fort, pianista e jazzista israeliana nata vicino a Tel Aviv 52 anni fa. A Milano Piano City sarà uno degli ospiti d’onore, delle guest star per usare la definizione anglosassone e che lei stessa ha tante volte sentito ripetere dopo essersi trasferita nel New Jersey (William Paterson University) e a New York per irrigare l’innato istinto jazz attingendo alle sorgenti di questo genere.
«Per me come in generale per un jazzista è impossibile prevedere quello che suonerò a un concerto; soprattutto quando si è soli e non si ha un progetto specifico, ma si segue l’estro estemporaneo. Certo, ci sono mie precedenti composizioni che in un certo periodo o in una certa giornata mi ronzano nel cervello e inevitabilmente mi suggeriscono note, passaggi, idee melodiche o giri armonici. Però ancor più forte è la suggestione che esercita su di me ciò che mi sta attorno: il sole di una bella giornata, l’azzurro del cielo e magari il freddino di una giornata ventosa, il rintoccare delle campane come il rumore del traffico cittadino fino ai profumi della natura ed eventuali dialoghi e incontri con persone avuti fino al minuto prima di salire sul palco».
Tutto ciò, che a Fort accade ad ogni concerto, a Milano sarà amplificato e moltiplicato: «Non mi sono mai esibita all’aperto, mi hanno detto che suonerò in un giardino (quello della Galleria d’Arte Moderna, ndr.) e sono molto curiosa di vedere come reagirò: tutte le suggestioni e le ispirazioni che le ho elencato normalmente arrivano prima del concerto e poi le porto e le elaboro quando sono sul palco; alla Gam invece il cielo, magari il rintocco di una campana o certi rumori e profumi mi circonderanno mentre suono; non so come reagirò e che cosa ne uscirà». Dipenderà anche dal pubblico: «Mi hanno detto che la formula della manifestazione prevede momenti in cui il pubblico è a pochissimi metri dai musicisti; lo trovo molto bello, è una cosa che mi piacerebbe sperimentare
più spesso: c’è un’interazione intima, immediata, quasi uno scambio di respiri e di vibrazioni, come se le emozioni trasmesse da chi suona e ricevute da chi ascolta diventassero fisicamente percepibili».
Fort ha già suonato varie volte in Italia: «Penso che da questo punto di vista Milano sia simile a Roma, dove ho suonato e che ho visitato; sono città in cui i luoghi in cui vorrei suonare sono tantissimi: ci sono teatri e sale bellissime, ma anche musei, chiese. Non riesco a immaginare che cosa potrebbe trasmettermi l’Ultima cena di Leonardo, se fosse possibile suonare al Cenacolo. Però a Milano le due dimensioni, il teatro classico e il confronto con storia e arte, si fondono. Parlo ovviamente della Scala: chi non vorrebbe suonarci? E sono sicura che appena entrati lo si percepisca, lo si senta negli stucchi e nei tessuti porpora impregnati dalla storia della lirica, dalla musica che qui hanno portato i miti del canto, del podio, del pianoforte o del violino». Una storia che emoziona Fort nonostante non abbia mai prediletto Mozart o Beethoven: «Ho iniziato a suonare a 6 anni, ma più che studiare amavo improvvisare; a 7 cominciarono le lezioni regolari, ma i classici, da Mozart a Chopin e Brahms, non mi avvincevano: fosse stato per le Sonate di Beethoven non sarei mai diventata una musicista. Continuavo a preferire l’improvvisazione, mi faceva sentire libera e vera nell’esprimermi». Più che l’insegnante («molto tradizionale e accademica» ricorda divertita), lo capì la madre: «Mi lasciò andare in America, nella patria del jazz per immergermi nella storia e imparare dai grandi».
Per la pianista israeliana «i miei “grandi” sono innanzitutto Keith Jarrett e Thelonious Monk: sono riusciti a dare un’impronta personale, immediatamente riconoscibile in ogni loro brano, ascolti qualche secondo e capisci subito che sono loro».
Ho iniziato a suonare a 6 anni, ma più che studiare amavo improvvisare. Mia madre mi ha capita