Corriere della Sera

La battaglia di Odessa

L’Ue vuole riaprire lo scalo che esporta il 15% del grano mondiale per scongiurar­e la crisi alimentare globale. Mosca martella, ma non ha le forze per creare il «corridoio» verso la Transnistr­ia Il porto, snodo strategico, è da giorni obiettivo dei raid

- dalla nostra inviata a Odessa Marta Serafini

«Questa non è solo guerra. È vendetta». A Odessa, che il presidente russo Vladimir Putin sia furioso con la «regina» lo sanno tutti. In poco meno di due giorni i suoi generali hanno dato ordine di sganciare una dozzina di missili. Il 9, il giorno della parata a Mosca, hanno addirittur­a usato tre Kh-47M2 Kinzhal, gli ipersonici, o «i pugnali» come sono ribattezza­ti in gergo. Buoni solo per le grandi occasioni e che hanno fatto la loro comparsa sulla scena il 19 marzo, quando furono lanciati da un Mig-31K contro un deposito di munizioni sotterrane­o nella regione di Ivano-Frankivsk, non lontano dal confine con la Romania. Avanti veloce fino a lunedì scorso, quando viene bombardato il centro commercial­e Riviera, nella parte nord di Odessa, con un morto e almeno cinque feriti. Il giorno prima, altri bombardame­nti sul porto e giù verso sud sulla costa e, sabato, un missile da crociera contro un hangar pieno di droni turchi, missili e munizioni provenient­i dagli Stati Uniti e dall’Europa. Come dire, non c’è pace per Odessa.

Nel mirino

Nonostante sia armato fino ai denti grazie ai rinforzi mandati dagli alleati di Kiev, il porto della «regina» — come è chiamata Odessa — resta nel mirino dello Zar. E resta fermo. Oltre al risentimen­to personale nei confronti di una città che Mosca che taccia di tradimento e che odia fin dal maggio 2014 quando oltre 40 attivisti filo russi vennero uccisi da estremisti neo nazisti, c’è un nodo strategico che il Cremlino non riesce a sciogliere. Ossia creare il famoso corridoio che dovrebbe collegare la Crimea alla Transnistr­ia passando proprio da Odessa. Un obiettivo troppo ambizioso, secondo Avril Haines, direttrice della National Intelligen­ce Usa, che «i russi non saranno in grado di raggiunger­e senza una nuova mobilitazi­one».

Al di là delle aspirazion­i militari di Mosca, il problema, per ora è un altro. Prima della guerra, l’Ucraina esportava 4,5 milioni di tonnellate di prodotti agricoli al mese attraverso i suoi porti, in testa quello di Odessa: il 12 per cento del grano mondiale, il 15 del mais e il 50 dell’olio di girasole. Bloccata la regina, in tante parti del mondo si resta a secco. «Nel porto di Odessa, ho visto silos pieni di grano e mais pronti per l’esportazio­ne», ha sottolinea­to il presidente del Consiglio europeo Charles Michel durante la sua visita lunedì scorso, la stessa durante la quale ha dovuto chiudersi in un rifugio mentre i russi bombardava­no il Riviera. E se la Fao parla di 25 milioni di tonnellate di grano bloccate in Ucraina, non a caso lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky, durante il colloquio telefonico con Michel, ha parlato di «una crisi alimentare globale innescata dalle azioni aggressive della Russia». In allerta è anche Ihor Kolyhaye, sindaco destituito di Kherson, occupata e saccheggia­ta dai russi dall’inizio della guerra. «Kherson è una regione agricola che non sta funzionand­o e i russi hanno saccheggia­to tonnellate e tonnellate di grano che hanno portato verso la Crimea». E non solo. Il traffico delle merci è bloccato anche dai continui raid russi contro il ponte di Zatoka, sull’estuario del Dnestr, lo stesso colpito almeno quattro volte dal 26 aprile e snodo fondamenta­le per il passaggio di merci su gomma e su rotaia da e verso la Romania.

Ma il dato nuovo non sono solo il numero di missili, quanto i target. Se nelle settimane precedenti a Odessa e dintorni sono stati colpiti per lo più obiettivi militari, ora c’è una novità. I raid hanno preso di mira anche le attività commercial­i, come il Riviera, bombardato di sera, dunque non per uccidere ma per danneggiar­e. E c’è anche un hotel sulla costa del Mar Nero nella lista degli edifici distrutti.

Gli alberghi

Si tratta del Grande Pettine, raso al suolo l’8 maggio. Secondo il giornalist­a ucraino Denis Kazansky, il complesso alberghier­o appartiene all’ex deputato del consiglio regionale del Partito delle regioni Sergei Demidov, socio in affari dell’ex deputato del popolo Igor Markov, ora nascosto in Russia e pro Mosca. Nel 2010, a causa dei debiti, una società tedesca rileva il Grand Pettine ma Demidov mantiene delle quote forse in garanzia del suo filo rosso con il Cremlino. Filo rosso che però deve essersi in qualche modo spezzato. Secondo i giornalist­i investigat­ivi ucraini, questi bombardame­nti sono messaggi che Mosca manda. O, meglio, sono punizioni. Esattament­e come successo a Mykolaiv a fine marzo. Quando un missile centrò un altro hotel, l’Ingul. Anche quello di proprietà di un imprendito­re filo russo, colpevole evidenteme­nte di non aver fatto per bene il lavoro per conto di Mosca, ossia reo di non aver preparato il terreno per l’arrivo dei russi.

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Soccorsi Vigili del fuoco a Odessa dopo i bombardame­nti (Reuters)

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