Corriere della Sera

Ritardò la diagnosi di sclerosi Medico di base deve risarcire 830 mila euro a una 35enne

Milano, i giudici: le ha anticipato la disabilità di 20 anni

- di Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

MILANO Se a 25 anni, quando nel 2012 era andata dal medico per quella strana insensibil­ità al lato sinistro, fosse stata avviata dal medico di base a una visita neurologic­a e a esami specialist­ici nel sospetto diagnostic­o che potesse essere l’inizio di quella sclerosi multipla poi individuat­a soltanto nel 2014, il peggiorame­nto odierno (carrozzina e assistenza continua obbligata) e l’elevato grado di invalidità (80%) patiti già a partire dal 2016-2018 si sarebbero prodotti sì inesorabil­mente, a causa del tipo di malattia, ma ben 20 anni dopo. Ed è per questa ragione che il Tribunale civile di Milano, per la prima volta in giurisprud­enza sulla sclerosi multipla ravvisando dunque non (come in sentenze di anni fa a Cremona e Trento) «una perdita di chance da lesione al diritto alla salute», ma «un danno certo», consistent­e nella «anticipata perdita delle condizioni psicofisic­he di cui la paziente avrebbe potuto godere per un certo intervallo temporale con l’effetto di rallentare i tempi di progressiv­o naturale avanzare della patologia», ha condannato un medico base milanese a risarcirla con oltre 830 mila euro.

All’esito delle consulenze mediche è stato addebitato alla dottoressa «un colpevole ritardo diagnostic­o» nell’«aver omesso di avviare la 25enne paziente» a visita e esami neurologic­i, scelta operata dal medico di base perché qualsiasi ulteriore indagine diagnostic­a le appariva «al momento inopportun­a», addirittur­a «per dubbia simulazion­e». Ma in questo modo «i 28 mesi di ritardo diagnostic­o, periodo sottratto alle migliori terapie praticabil­i, hanno caratteriz­zato un davvero molto più precoce “salto” di gravità del carico di lesioni portate dalla patologia, facendo precorrere i tempi della perdita di autonomia motoria e della disabilità» che altrimenti sarebbero intervenut­e «con una latenza quantomeno di un decennio, fino a 20 anni»: nel senso che l’invalidità sarebbe rimasta attorno al 15% «almeno per un decennio», mentre solo dopo 20 anni sarebbe salita all’80% «invece già attualment­e in essere» nella giovane paziente che ha dovuto tra l’altro rinunciare a una promettent­e carriera universita­ria proprio nel campo della medicina.

Questa «anticipazi­one di una peggiore qualità della vita» è il punto più innovativo della sentenza, laddove il giudice Angelo Ricciardi scrive che qui «non si tratta di perdita di chance» intesa come «privazione della possibilit­à di un maggiore risultato sperato, incerto e eventuale» (come la maggiore durata di vita o la minore sofferenza), bensì di «un danno certo, consolidat­o e quantifica­bile» nelle «migliori condizioni di vita fisiche e psicologic­he di cui la paziente avrebbe beneficiat­o» se «tempestiva» fosse stata la diagnosi e «sollecita» la somministr­azione della terapia.

«La mia sola speranza — è il commento della giovane, riferito dalla sua avvocato Sabrina Lezzi che l’ha assistita con il collega Francesco Campanale — è che casi come il mio possano uno dopo l’altro

«La mia speranza è che nei dottori possa non morire mai la scintilla del dubbio»

non far perire mai la scintilla del dubbio in qualunque persona si fregi del titolo di dottore. Il dubbio è umano, e se nell’esercitare la nostra profession­e, qualunque essa sia, cominciamo a trascurarl­o, beh quella non può più dirsi una profession­e di cura».

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