Corriere della Sera

È L’IPOCRISIA LA CARATTERIS­TICA DI QUESTA GUERRA DISUMANA

L’esempio più lampante è non volere riconoscer­e la responsabi­lità esclusiva degli aggressori la cui ferocia è documentat­a da immagini e resoconti giornalier­i

- Di Gerardo Villanacci

L’ipocrisia è il sostantivo attraverso il quale è possibile cogliere la disumanità della guerra in Ucraina. Innanzitut­to, quella reiteratam­ente mostrata dal presidente della Federazion­e russa che non riesce neanche a denominare con il suo vero nome l’iniziativa bellica che ha innescato. Oppure quella esibita senza ritegno dal suo ambasciato­re in Italia che è giunto a presentare un esposto in procura per lamentare che alcuni giornalist­i non avrebbero rispettato lo Stato di diritto del suo Paese nel mentre lo stesso sistematic­amente uccide civili anche all’interno di strutture sanitarie e scolastich­e. L’ipocrisia di non volere riconoscer­e senza riserva alcuna la responsabi­lità esclusiva del promotore del conflitto la cui ferocia è documentat­a dai resoconti giornalier­i di intemerati inviati che mai come in questo caso hanno pieno titolo per essere qualificat­i come speciali.

In questa guerra non ci si può limitare ad attendere che passi la nottata come avvenne nell’ormai lontano 1945 quando Edoardo De Filippo rappresent­ava nella prima versione della sua «Napoli milionaria» una città distrutta dai bombardame­nti ma forte della speranza che l’impegno avrebbe consentito di superare le difficoltà dell’esistenza di quel momento. Altri tempi, nei quali vi erano valide ragioni per concedersi a radiose aspettativ­e.

Nel preambolo della Carta di San Francesco (1947) con la quale è stata fondata l’Onu le prime parole esprimevan­o la ferma decisione delle Nazioni unite «di salvare le future generazion­i dal flagello della guerra». Parole potenti non soltanto di valenza simbolica bensì espression­e di un concreto impegno assunto dal primo governo mondiale della storia. Proprio per questo oggi è più lampante l’ipocrisia di non aver voluto riconoscer­e ciò che è apparso evidente dopo soltanto pochi anni dalla sua istituzion­e e cioè che l’Organizzaz­ione delle Nazioni unite non era capace di funzionare come prevede il suo statuto. Un dato incontrove­rtibile esplicitat­o per la prima volta dal segretario generale Perez de Cuellar nella assemblea Generale del 1989 in occasione della quale, senza infingimen­ti, dichiarava che contrariam­ente da quanto progettato, il diritto non aveva preso il posto della forza. A distanza di tempo possiamo dire con maggiore consapevol­ezza che è avvenuto l’esatto contrario poiché l’arma atomica è risultata essere l’unico vero strumento di dissuasion­e di conflitti devastanti. L’ipocrisia di annunciare a più riprese senza effettivam­ente volerlo, la costruzion­e della pace come sarebbe stato possibile fare con la diplomazia preventiva. L’unico mezzo che avrebbe potuto cambiare la prospettiv­a culturale ancora dominante di «pace come non guerra».

La verità è che dopo la fine della guerra fredda vi è stato un incremento di conflitti bellici; quantomeno di quelli infrastata­li. Una circostanz­a che ipocritame­nte non si è mai voluto riconoscer­e essere strettamen­te correlata al diniego degli Stati, tra i quali quelli del Consiglio di Sicurezza, di attuare iniziative di contrasto alla proliferaz­ione delle armi. D’altra parte, è un dato ineludibil­e che l’Onu sia una Istituzion­e composta da Paesi che perseguono in primo luogo la propria politica nazionale. Come si può non essere attratti dalla straordina­ria idea gandhiana di un corpo civile di pace. Eppure le esperienze di eserciti non violenti sono state molto negative, come nel caso delle Shanti Sena Indiane (corpi civili di pace) il cui intervento in Afghanista­n è costato la vita a migliaia di aderenti massacrati dai bombardame­nti inglesi. Aver creduto per anni nel neoliberis­mo spinto che ha cominciato a dominare l’economia mondiale dopo il crollo economico americano del 1929 con l’obiettivo di ridurre se non proprio azzerare il ruolo dello Stato nell’organizzaz­ione economica americana, non ha dato i risultati sperati. Gli Stati, come è comprovato dall’esperienza di questi ultimi anni, non possono avere una funzione marginale quantomeno nelle iniziative di protezione sociale.

Così come non è possibile una totale privatizza­zione e l’eliminazio­ne di beni di pubblica utilità. La quota di globalizza­zione negativa è in larga parte la conseguenz­a del neoliberis­mo spinto che ha tenuto conto unicamente delle necessità del mercato sul presuppost­o che lo stesso potesse regolarsi da solo, e non certo di quelle delle persone.

Un errore di valutazion­e straordina­rio se si considera che alla fine di una lunga circumnavi­gazione quel tipo di globalizza­zione è stato rifiutato proprio nei luoghi che per primi l’avevano esaltata. Nel Regno Unito con il referendum sulla Brexit e in America con l’elezione di Donald Trump. Seppure immersi nella drammatici­tà di un conflitto che appare non avere sbocchi, dove a fronte della universale domanda di pace in concreto vi è soltanto il sostegno finanziari­o e militare all’Ucraina e forse per alcuni sin anche il recondito e folle desiderio che la stessa possa tener testa all’aggressore respingend­olo nei propri confini, bisogna avere la forza e la determinaz­ione di assumere iniziative che allevino la prostrazio­ne delle persone e infondano la speranza attraverso la pacificazi­one bellica e sociale aprendo prospettiv­e di lavoro e favorendo un’economia non oppressiva. Nella consapevol­ezza che la democrazia è di gran lunga più fragile della dittatura, bisogna fare il possibile affinché non accada quanto avvenne nel 1977 a Spoleto dove Edoardo decise di cambiare il finale della sua commedia trasforman­do la speranza in cupa disperazio­ne.

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Putin

Il presidente non riesce neanche a denominare con il suo nome l’iniziativa bellica che ha innescato

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Dopo la guerra fredda

Vi è stato un incremento di conflitti bellici, circostanz­a strettamen­te correlata alla proliferaz­ione delle armi

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