Falcone e Borsellino Una leggenda popolare due memorie divise
Anteprima Una raccolta di testi dei magistrati, edita da Solferino e curata da Nando dalla Chiesa. Qui un estratto della prefazione
Era partito per fare la guerra Per dare il suo aiuto alla sua terra Gli avevano dato le mostrine e le stelle E il consiglio di vender cara la pelle. E quando gli dissero di andare avanti Troppo lontano si spinsero a cercare la verità.
Ora che è morto la patria si gloria D’un altro eroe alla memoria.
Così cantava La ballata dell’eroe di Fabrizio De André, diventata disco nel 1961, quando la gioventù di tutto il mondo anticipava la grande contestazione abiurando in musica le retoriche militari e civili dell’infanzia e dell’adolescenza. Oggi i suoi versi fanno da bussola ideale per chi si addentri in questa antologia, il cui titolo, non per nulla, si ispira a una celebre immagine del grande cantautore genovese. Illuminando così una delle maggiori narrazioni del Novecento italiano. Perché una cosa va detta. Quella di Falcone e Borsellino è senz’altro una leggenda: una moderna leggenda popolare. Che venne da subito narrata nelle scuole come la dolente e meravigliosa favola di «Paolo e Giovanni». Iniziò a narrarla così Antonino Caponnetto, che nella sua veste di capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo aveva assunto quasi il ruolo di padre putativo dei due magistrati simbolo della lotta alla mafia. E che per quasi un decennio fece da apostolo della speciale religione laica da essi osservata e glorificata.
Una favola dagli ingredienti indimenticabili. Le due stragi, la terra che si solleva a Capaci come in un terremoto, gonfiore che si trasforma in fulmine; il fuoco che in via D’Amelio si leva fino al cielo, tutto bruciando e scarnificando. Sullo sfondo l’Italia corrotta e corruttrice da Milano a Palermo, e una lunga catena di martiri che in quei due scenari da inferno, in quel terribile uno-due palermitano, si materializza d’incanto. E sopra, e accanto, la foto destinata a segnare un’epoca, a entrare in scuole e commissariati, sedi di associazioni e palazzi di giustizia, schermi di cellulari e stanze di adolescenti. L’immagine commovente e malinconica dei due giudici che sorridono complici dietro a un tavolo, come a farsi compagnia nell’ultimo tratto di strada, sul finire di quelle «storie parallele» che neanche Plutarco di Cheronea avrebbe saputo immaginare.
Il trauma, l’eroismo, la malinconia, il senso di colpa per l’indifferenza, e perfino per i sospetti sparsi a piene mani. Tutto si combinava, come ideato da un regista sopraffino, a generare per i decenni a venire la grande leggenda di Falcone e Borsellino. Che si sarebbe imposta, orgoglioso pezzo di storia patria, nella cultura civile degli italiani, anche di quelli privi di una sia pur elementare frequentazione dell’idea di legalità. Cosa in fondo non spregevole se l’ipocrisia è davvero, secondo il consolatorio aforisma di François de La Rochefoucauld, «l’omaggio che il vizio rende alla virtù».
Ora che è morto la patria si gloria D’un altro eroe alla memoria.
Mi è capitato tante, tantissime volte di sentirla raccontare, la leggenda. Ed è probabile che nel periodo in cui è destinato a uscire questo libro, nel trentennale della fulminea successione delle due date incise nella nostra memoria, 23 maggio e 19 luglio, essa risuonerà ancora. E commuoverà, e onorerà giustamente le vittime, e altrettanto giustamente rafforzerà in milioni di cittadini la sensazione di appartenere a una storia fatta di dignità e di spirito di resistenza. Ma è altrettanto probabile che essa verrà raccontata non solo sublimando la realtà storica, che è il fascino proprio delle chanson de geste, ma anche amputandola, che è invece il cattivo destino di tante mirabili storie umane. Devo dire che l’ho ascoltata in questa seconda veste la maggior parte delle volte. Anzi, quasi sempre. Per esempio quando ho partecipato ai viaggi della «nave della legalità», detta anche «nave Falcone-Borsellino», organizza
ti per molti anni — a partire dal 2006 — dalla Fondazione Falcone e dal ministero dell’Istruzione. Viaggi da Civitavecchia a Palermo la notte tra il 22 e il 23 maggio. Vi partecipavano studenti di tutte le età, provenienti dalle scuole più impegnate nei progetti per la legalità e l’antimafia, e prevedevano ogni anno la presenza di diverse autorità istituzionali. Ebbene, in quelle occasioni, la sera varie personalità offrivano fitti ricordi dei due giudici, con lo scopo di far comprendere ai giovanissimi ospiti della nave il valore delle figure che avrebbero onorato il giorno dopo. Protagoniste di uno scontro frontale con la mafia. Rappresentanti di uno Stato che a loro si era affidato per vincere una battaglia terribile e quasi impossibile e che, grazie anche al loro sacrificio, stava ora — sia pur faticosamente — vincendo.
Ricordo che alla fine di quegli incontri sentivo regolarmente l’esigenza di convocare i miei studenti a mezzanotte sul ponte della nave, disposti a cerchio, per raccontare loro che cosa ricordavo invece io del rapporto di quei giudici con lo Stato e con la magistratura; le umiliazioni, gli ostacoli,
Il rapporto dei due giudici con lo Stato fu irto di difficoltà: dovettero affrontare ostacoli, perfidie, attacchi violenti
gli attacchi, le perfidie, il coraggio, l’essere dovuti andare sempre «in direzione ostinata e contraria». Per restituire alla giovane platea non l’anti-leggenda ma la leggenda vera. Che cosa infatti dovevamo imparare dalla loro storia? In che senso quella storia poteva e doveva esserci magistra vitae? Era questo il problema. Gli studenti ascoltavano a bocca aperta, e anche altri passeggeri della nave — insegnanti, giornalisti — affollatisi gradualmente dietro loro. Capii profondamente, in quelle serate, anche se non solo in quelle, che commemorazione e memoria sono cose profondamente diverse.
Si tratta di una distinzione fondamentale, che dovrebbe guidarci soprattutto negli anniversari più solenni. Poiché in essi confluiscono in genere due atteggiamenti mentali, origini di altrettanti approcci. Il primo è quello della narrazione geometrica. Disegni chiari, campi divisi in due, linee rette e cerchi che si chiudono. Stato e mafia, buoni e cattivi, noi e loro. Il secondo è quello della narrazione in chiaroscuro, dove lo scuro non riguarda però mai chi parla. Magistrati invidiosi, regole antiquate, un pezzo della politica collusa, perfino la diffidenza dei movimenti verso Falcone che approda al ministero della Giustizia a Roma «abbandonando» la trincea palermitana. Nessuna colpa in chi racconta. In tutti e due i casi, ed evidentemente assai più nel primo che nel secondo, non si capisce in che spazio debba lavorare la memoria; dove essa debba muoversi per raschiare, rivedere, illuminare e alla fine consegnare agli «uomini di buona volontà» quel patrimonio di insegnamenti che sempre la storia allestisce dentro gli eventi che la fanno svoltare.
L’intenzione di questo libro è di evitare che la memoria si scolori in uno dei due approcci. Sapendo che anche il secondo, benché più rispettoso della verità storica, non ci aiuta a costruire un’altra storia. Non ci serve cioè a costruire un futuro, se così si può dire, «a misura di Falcone e Borsellino».