La reporter di Al Jazeera uccisa durante un raid a Jenin La rabbia dei palestinesi
Molto amata nei Territori. Israele promette un’inchiesta. Timori di scontri
GERUSALEMME Le sparatorie tra i vicoli, un’altra incursione, i raid vanno avanti da quasi un mese. Come vent’anni fa Jenin diventa la prima linea: qui l’esercito israeliano ha combattuto la battaglia più dura della seconda intifada, parte dell’operazione Scudo Difensivo ordinata da Ariel Sharon per colpire i gruppi estremisti dentro alla Cisgiordania.
Shireen Abu Akleh è lì per la televisione Al Jazeera, c’era anche allora. Il giubbotto blu con la scritta in inglese Press (stampa, ndr), l’elmetto: tutti i segnali per poter fare il suo lavoro senza diventare un bersaglio. Un proiettile l’ha colpita al collo. I colleghi dei giornali palestinesi l’hanno portata in ospedale, ma era già morta. Era uno dei volti più noti del canale satellitare, i giovani palestinesi la considerano un simbolo, sono cresciuti con le sue cronache dei quattro anni di «rivolta» agli inizi del Duemila. Davanti alla sua casa, in uno dei quartieri di Gerusalemme Est, arrivano in tanti. Il lutto diventa protesta. La cosa preoccupa gli analisti israeliani: in passato più che il numero dei morti è stato un singolo avvenimento ad accelerare la violenza. Shireen ormai è celebrata come la «voce della Palestina». Il presidente Abu Mazen le dedica una cerimonia alla Muqata, il palazzo del raìs dai tempi di Yasser Arafat.
Restano le immagini del corpo riverso senza che nessuno possa raggiungerla per alcuni minuti, la collega vicino a lei che non riesce a muoversi terrorizzata, un altro giornalista che corre via ferito. Restano i video diffusi senza alcuna verifica, le accuse reciproche, le promesse di inchieste. Il Qatar, proprietario dell’emittente popolare in tutto il mondo arabo, sostiene che la donna sia stata ammazzata dagli israeliani «a sangue freddo»: «Questo terrorismo dello Stato israeliano deve cessare», proclama Laula Al Khater, vice ministra degli Esteri dell’emirato.
Da Gerusalemme il premier Naftali Bennett parla di insinuazioni «infondate», mentre Yair Lapid — il capo della diplomazia — offre al governo palestinese di effettuare un’autopsia congiunta. L’esercito israeliano fa circolare un filmato in cui si vede un miliziano sventagliare il kalashnikov verso il fondo di una stradina per poi urlare: «Ne abbiamo preso uno, è a terra». I portavoce spiegano che nessun soldato è stato ferito e ipotizzano che il corpo sia quello della giornalista. Il video viene smontato da B’Tselem, organizzazione israeliana che lotta per il rispetto dei diritti umani nei Territori: il punto da cui l’uomo incappucciato spara è lontano da quello dove la reporter è stata ammazzata. Altre analisi ricostruiscono il fuoco palestinese verso i blindati israeliani e più sotto lungo la stessa strada l’incrocio in cui la troupe di Al Jazeera si stava muovendo.
Solo nel pomeriggio Aviv Kochavi, il capo di Stato Maggiore, lascia in parte cadere l’accusa contro i palestinesi e ammette che non è ancora possibile stabilire con certezza la responsabilità. La Casa Bianca (Shireen aveva anche nazionalità americana) chiede un’indagine indipendente «accurata ed esaustiva». Il calibro del proiettile estratto è compatibile sia con un M-16 (in dotazione agli israeliani) che con il Kalashnikov usato dai miliziani. Gli israeliani sostengono di poter risalire all’arma, se i palestinesi accettano di passare loro il bossolo.
Il governo Bennett affronta da un mese e mezzo l’ondata di attacchi nelle città israeliane, i morti sono già 17. Le operazioni militari in Cisgiordania — come quella a Jenin, un arresto e la requisizione di armi nella notte che proseguono in scontri fino all’alba — sono state intensificate, gli attentati tra i civili sono solo rallentati, non fermati. L’ultimo una settimana fa, a colpi d’ascia.