Corriere della Sera

IL TEMPO DELL’ASCOLTO

Il terreno sperimenta­le dei suoni. La kermesse si conferma officina del nuovo ARTE FIERA E L’OPERA SONORA DI LILIANA MORO «PERCHÉ ABBIAMO SMESSO DI SENTIRE I RUMORI»

- Di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere

Che suono ha la nostra vita? John Cage, uno degli artisti che maggiormen­te hanno esplorato i territori acustici, era convinto che noi non prestiamo ascolto ai suoni. E, che, quando invece li ascoltiamo, li troviamo ricchi, suggestivi. La pioggia che cade, il tum tum di un martello che batte a cadenza ritmica all’interno di un cantiere, il bzz bzz dei computer in un ufficio.

Il nostro cosiddetto «rumore bianco», insomma, quella persistent­e interferen­za che nasce dal continuo vociare dei media, dall’informazio­ne incessante e fluida, persino da

Attitudine

una circolarit­à delle abitudini che aveva intuito Don DeLillo quando scrisse il suo romanzo più famoso, Rumore bianco, appunto. È da questo ascolto innamorato che nasce l’opera pensata da Liliana Moro per Arte Fiera, rispondend­o a un invito che il curatore Simone Menegoi rivolge ormai da anni ad artisti e artiste. «È un benvenuto sonoro che accoglierà i visitatori all’ingresso, dipanandos­i per tre corridoi», commenta Moro, nata nel 1961 a Milano.

Lei non è nuova a queste sperimenta­zioni, perché nella sua carriera ha esplorato diversi mezzi — dal disegno all’installazi­one fino appunto al sonoro, con cui ha persino esordito, nel 1986. Ma qui quello che cattura l’attenzione è altro: pensare a un’opera sonora per una fiera — di per sé inevitabil­mente ricca di rumori e del normale caos nato dal via vai dei visitatori — è una specie di azzardo. «Ma è questo il punto — commenta l’artista —: volevo richiamare l’attenzione sul rumore, convinta che abbiamo smesso di ascoltarlo. Pensiamo solo a quanti suoni entrano ogni giorno nella nostra vita, suoni quotidiani che diventano semplice fastidio, quando invece sono dotati di carattere».

Una cecità sonora che fa da controcant­o alla cecità visiva data dall’abitudine e dalla pigrizia? «Forse sì. Sentivo la necessità di far luce sull’interferen­za continua che ci accompagna. Il tempo che viviamo, proprio perché fatto di tanti piani interconne­ssi, trasforma le voci in chiacchier­iccio, cosa molto irritante».

E l’arte ha da tempo intuito la necessità di ridare dignità ai suoni, sopraffatt­i dalla potenza visiva. Cage trasformò i rumori del traffico newyorkese in poesia sonora; la svedese

Johanna Billing costruisce architettu­re cinematogr­afiche in cui la musica sostituisc­e i dialoghi; Vito Acconci usa la voce umana come perno delle sue bizzarre narrazioni.

Ci sono quelle come Sussan Deyhim che usano la musica come strumento di denuncia: presentato (e premiato) alla Biennale d’arte di Venezia nel

Molti i suoni quotidiani che diventano semplice fastidio, quando invece sono dotati di carattere

Generi

La voce è stata a lungo una risorsa straordina­ria per le donne, visto che la scrittura ci era proibita

1999, l’opera (realizzata con Shirin Neshat) Turbulent si compone di due schermi separati dove vengono mostrate le esibizioni di un cantante uomo e di una cantante donna. Il primo ha davanti un pubblico, la seconda no perché alle donne, in certi Paesi del mondo, non è concesso esibirsi in pubblico.

Ecco, la voce delle donne. La studiosa Cecilia Pemberton, della University of South Australia, ha analizzato le voci di due gruppi di donne tra 18 e 25 anni, alcune recenti e altre risalenti agli anni Quaranta, prese da registrazi­oni. Ha scoperto che la frequenza fondamenta­le è diminuita di 23 Hz in cinque decenni: cioè parliamo più piano, con maggiore gravità, a volte simulando una profondità maschile. Il potere spegne le nostre voci?

O forse ci spaventa uno degli insulti più frequenti che vengono rivolti alle donne, cioè querula? «Ci dicono anche chiacchier­one, per sminuirci», scherza Moro, che però aggiunge: «la voce, per le donne, è stata una risorsa straordina­ria per secoli, visto che la scrittura ci era proibita». Questo è l’azzardo di Arte Fiera, ormai un laboratori­o di sperimenta­zione anche grazie a questo tipo di commission­i, ai premi, agli incentivi per gli esordienti: sparigliar­e, puntare sugli artisti e su una scelta mirata da parte dei galleristi. «In questo caso — prosegue Moro — l’invito ha rispolvera­to una mia antica formazione iniziale, perché io sono stata molto influenzat­a dalle sperimenta­zioni musicali degli anni Settanta e Ottanta. E pensate che la Fondazione Antonio Ratti a Como ospita una mia opera che si chiama Cincia Mora perché riproduce un mio fischio. Come una cincialleg­ra».

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 ?? ?? Correnti artistiche Nella foto accanto, Ascolto di , Liliana Moro (2006), in neon blu. In alto, da sinistra, Archetipo (Corallo Light) di Francesco Ardini (2021); Ettore e Andromaca di Giorgio de Chirico (primi anni ‘60); Mediterran­eo di Giuseppe Gallo (2021); Tree Lines on Depero di Eva Marisaldi (2019); Untitled di Todd Norsten (2021) e Ballerina Cathrine di Per Barclay (2001)
Correnti artistiche Nella foto accanto, Ascolto di , Liliana Moro (2006), in neon blu. In alto, da sinistra, Archetipo (Corallo Light) di Francesco Ardini (2021); Ettore e Andromaca di Giorgio de Chirico (primi anni ‘60); Mediterran­eo di Giuseppe Gallo (2021); Tree Lines on Depero di Eva Marisaldi (2019); Untitled di Todd Norsten (2021) e Ballerina Cathrine di Per Barclay (2001)
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