IL TEMPO DELL’ASCOLTO
Il terreno sperimentale dei suoni. La kermesse si conferma officina del nuovo ARTE FIERA E L’OPERA SONORA DI LILIANA MORO «PERCHÉ ABBIAMO SMESSO DI SENTIRE I RUMORI»
Che suono ha la nostra vita? John Cage, uno degli artisti che maggiormente hanno esplorato i territori acustici, era convinto che noi non prestiamo ascolto ai suoni. E, che, quando invece li ascoltiamo, li troviamo ricchi, suggestivi. La pioggia che cade, il tum tum di un martello che batte a cadenza ritmica all’interno di un cantiere, il bzz bzz dei computer in un ufficio.
Il nostro cosiddetto «rumore bianco», insomma, quella persistente interferenza che nasce dal continuo vociare dei media, dall’informazione incessante e fluida, persino da
Attitudine
una circolarità delle abitudini che aveva intuito Don DeLillo quando scrisse il suo romanzo più famoso, Rumore bianco, appunto. È da questo ascolto innamorato che nasce l’opera pensata da Liliana Moro per Arte Fiera, rispondendo a un invito che il curatore Simone Menegoi rivolge ormai da anni ad artisti e artiste. «È un benvenuto sonoro che accoglierà i visitatori all’ingresso, dipanandosi per tre corridoi», commenta Moro, nata nel 1961 a Milano.
Lei non è nuova a queste sperimentazioni, perché nella sua carriera ha esplorato diversi mezzi — dal disegno all’installazione fino appunto al sonoro, con cui ha persino esordito, nel 1986. Ma qui quello che cattura l’attenzione è altro: pensare a un’opera sonora per una fiera — di per sé inevitabilmente ricca di rumori e del normale caos nato dal via vai dei visitatori — è una specie di azzardo. «Ma è questo il punto — commenta l’artista —: volevo richiamare l’attenzione sul rumore, convinta che abbiamo smesso di ascoltarlo. Pensiamo solo a quanti suoni entrano ogni giorno nella nostra vita, suoni quotidiani che diventano semplice fastidio, quando invece sono dotati di carattere».
Una cecità sonora che fa da controcanto alla cecità visiva data dall’abitudine e dalla pigrizia? «Forse sì. Sentivo la necessità di far luce sull’interferenza continua che ci accompagna. Il tempo che viviamo, proprio perché fatto di tanti piani interconnessi, trasforma le voci in chiacchiericcio, cosa molto irritante».
E l’arte ha da tempo intuito la necessità di ridare dignità ai suoni, sopraffatti dalla potenza visiva. Cage trasformò i rumori del traffico newyorkese in poesia sonora; la svedese
Johanna Billing costruisce architetture cinematografiche in cui la musica sostituisce i dialoghi; Vito Acconci usa la voce umana come perno delle sue bizzarre narrazioni.
Ci sono quelle come Sussan Deyhim che usano la musica come strumento di denuncia: presentato (e premiato) alla Biennale d’arte di Venezia nel
Molti i suoni quotidiani che diventano semplice fastidio, quando invece sono dotati di carattere
Generi
La voce è stata a lungo una risorsa straordinaria per le donne, visto che la scrittura ci era proibita
1999, l’opera (realizzata con Shirin Neshat) Turbulent si compone di due schermi separati dove vengono mostrate le esibizioni di un cantante uomo e di una cantante donna. Il primo ha davanti un pubblico, la seconda no perché alle donne, in certi Paesi del mondo, non è concesso esibirsi in pubblico.
Ecco, la voce delle donne. La studiosa Cecilia Pemberton, della University of South Australia, ha analizzato le voci di due gruppi di donne tra 18 e 25 anni, alcune recenti e altre risalenti agli anni Quaranta, prese da registrazioni. Ha scoperto che la frequenza fondamentale è diminuita di 23 Hz in cinque decenni: cioè parliamo più piano, con maggiore gravità, a volte simulando una profondità maschile. Il potere spegne le nostre voci?
O forse ci spaventa uno degli insulti più frequenti che vengono rivolti alle donne, cioè querula? «Ci dicono anche chiacchierone, per sminuirci», scherza Moro, che però aggiunge: «la voce, per le donne, è stata una risorsa straordinaria per secoli, visto che la scrittura ci era proibita». Questo è l’azzardo di Arte Fiera, ormai un laboratorio di sperimentazione anche grazie a questo tipo di commissioni, ai premi, agli incentivi per gli esordienti: sparigliare, puntare sugli artisti e su una scelta mirata da parte dei galleristi. «In questo caso — prosegue Moro — l’invito ha rispolverato una mia antica formazione iniziale, perché io sono stata molto influenzata dalle sperimentazioni musicali degli anni Settanta e Ottanta. E pensate che la Fondazione Antonio Ratti a Como ospita una mia opera che si chiama Cincia Mora perché riproduce un mio fischio. Come una cinciallegra».