GEOGRAFIE DEL CUORE
Il Giro unisce Calabria e Basilicata Diamante e il suo sapore di sale, poi i monti dove volano le aquile e i nibbi. Infine, Potenza
Se fossi un ciclista del Giro diserterei oggi la partenza della tappa Diamante-Potenza. Rimarrei sul posto. Forse per non muovermi più. Affiderei a un compagno di corsa una cartolina illustrata di quelle di una volta, con i colori accesi, un po’ irreali, psichedelici prima che la psichedelia venisse di moda, e lo pregherei di portarla a Potenza con i miei più cari saluti.
Diamante è, come dice la parola, nomen omen, una pietra preziosa, ma è anche, per quanto mi riguarda, come la madeleine di Proust: accende i ricordi. A Diamante andavo ogni estate da quando ero bambino e, in un certo senso, ci sono rimasto per sempre.
Il Giro è una questione geografica ma è anche un cocktail di memorie, di luoghi dell’anima. I diamantesi doc e i diamantesi acquisiti (i villeggianti) si dividono in due partiti, quello degli antichi e quello dei moderni. I primi votano per la Diamante anni Sessanta e dintorni, quella che un pomeriggio d’agosto vide sfilare sul lungomare il famoso sarto Schubert (il Giorgio Armani della Dolce Vita), disteso, attorniato dai suoi barboncini, sul sedile posteriore color champagne di una magnifica decapottabile (una Bentley? una Rolls?). Il partito degli antichi pensa a Diamante come a una Capri in miniatura (o una Saint-Tropez). D’altronde Diamante dispone di un Faraglione, sebbene solitario, scompagno (l’isola di Cirella), e ha una Spiaggia Grande e una Piccola (così come l’isola di Tiberio ha la Marina Grande e la Marina Piccola). E c’era allora in paese perfino un sosia (identico, spiaccicato) di Peppino di Capri (periodo twist).
Ma il pezzo forte era la rotonda sul mare che sormontava la scogliera e ballò una sola estate o poco più. Il mare la limò con pazienza e determinazione (come un carcerato le sbarre della cella) fino a distruggerla. Le macerie diventarono scogli tra gli scogli. Una volta che Fred Bongusto venne a cantare in zona, dopo il concerto lo portarono a vedere i resti della Rotonda. Lui la guardò, fece per dire qualcosa, ma poi non disse niente.
Era l’estate italiana, quella del boom e di Sapore di sale, ma il partito dei diamantesi moderni non ne vuole più sentir parlare. Loro sono
Il pezzo forte era la rotonda sul mare che sormontava la scogliera e ballò una sola estate o poco più Il mare la limò con pazienza e determinazione (come un carcerato le sbarre della cella) fino a distruggerla
(e non mancano di buone ragioni) per una Diamante 2.0, la Diamante dei murales, dipinti ovunque nelle strade del paese, e del Festival del Peperoncino, appuntamento settembrino che coniuga tradizione gastronomica e marketing. Vorrebbero i moderni una Diamante non più Capri ma, forse, Dubai, un posto high tech col sogno del Porto Canale, una sciccheria che doveva segnare gli Anni Duemila (e chissà magari verrà ancora buona per il Tremila).
La carovana rosa lascerà stamattina il lungomare, attraverserà la Riviera dei Cedri, Praia a Mare, la splendida Maratea, scalerà il Monte Sirino, dove volano aquile reali e nibbi, e raggiungerà infine Potenza. Si spera che prima di piombare sul traguardo i girini contempleranno per un attimo lo skyline potentino che, come scrisse Pasolini, è identico a quello di New York (no, non aveva alzato il gomito – non beveva, soffriva di ulcera – ma c’è del vero nel paragone).
Il girino che, seguendo il mio consiglio, non partirà, potrà invece recarsi al Bar Pierino a gustare, seduto ai tavolini in faccia al mare, la famosa granita (al cedro, alle more) celebrata da Mario Soldati in uno dei suoi giri d’Italia. Un diamantese antico forse gli racconterà una storia che potrebbe far parte della serie tv Shtisel: a settembre, partiti i villeggianti, apparivano sul lungomare i rabbini ortodossi giunti da Israele e da altre sinagoghe sparse per il mondo. Barba lunga, riccioli, intabarrati in redingote nere, cappello calcato in testa, malgrado il caldo ancora forte, venivano per selezionare (previo esame con la lente d’ingrandimento) i cedri giusti per la festa ebraica del Sukkot. Poi li avvolgevano a uno a uno con la canapa in cassette di legno. È una tradizione antichissima, ancora viva. I rabbini scelgono i frutti perfetti, quelli che, dicono loro, brillano come un diamante.