Corriere della Sera

«Quella sera che Casini mi fece sentire il suo discorso per l’elezione al Quirinale»

Renzi: citava Wojtyla, gli dissi di tenerlo per il 2029

- Di Matteo Renzi

Pubblichia­mo un estratto del libro di Matteo Renzi «Il mostro», in uscita martedì per Piemme.

Nei primi giorni delle votazioni quirinaliz­ie mi ero tenuto prudente. Come sempre in questi casi avevo più candidati. Dicevo a tutti che per la solidità delle istituzion­i la cosa più logica mi sembrava spostare Mario Draghi al Quirinale e rinforzare il profilo politico del governo. Non era un passaggio facile. In molti lo temevano. Io pensavo che Draghi per sette anni avrebbe fatto meglio al Paese di un solo anno a Palazzo Chigi.

Certo: la sua corsa aveva alcuni handicap. E ovviamente tra questi figurava la resistenza molto forte di Cinque Stelle, Forza Italia e Lega. Penso, però, che tale ostilità si sarebbe potuta tramutare in appoggio — perlomeno a destra — se solo Draghi avesse scelto di giocarsi le carte in modo diverso. Più che Draghi, direi i suoi più stretti collaborat­ori. Draghi infatti è sempre stato straordina­riamente signorile. Ha sempre dato la sua disponibil­ità davvero come «un nonno al servizio delle istituzion­i». Avrebbe sicurament­e fatto bene al Quirinale e sicurament­e farà bene a Palazzo Chigi in questo anno. Non ha brigato. E io posso dire di esserne testimone avendo fatto qualche incontro e telefonata con lui fin dagli anni in cui era alla Bce.

Temo, però, che i suoi collaborat­ori più stretti — soprattutt­o Francesco Giavazzi e Antonio Funiciello — abbiano costruito una strategia sbagliata. L’errore dei Draghi’s Boys è stato quello di pensare di arrivare al Quirinale contro la politica, come reazione alla difficoltà della politica. Pensavano di essere chiamati al Quirinale come una sorta di naturale soluzione se si fosse continuata a indebolire la componente politica. Io avevo spiegato invece che la strada maestra era l’altra: provare a offrire ai partiti un patto di legislatur­a, comprensiv­o dell’accordo di un nuovo governo, magari più marcatamen­te politico. E su questo anche Salvini aveva — bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare — aperto ufficialme­nte a inizio gennaio. Non tanto Draghi, ma i suoi hanno insistito per caratteriz­zare il premier come la soluzione da presentare contro l’inconclude­nza dei partiti. È la dimostrazi­one che si può essere bravi professori all’università, ma che il Parlamento è un’altra cosa. In Italia se vai contro ai partiti puoi arrivare ovunque tranne che al Colle: per come è fatto questo sistema istituzion­ale, con l’assemblea dei grandi elettori, non si diventa presidente della Repubblica contro i partiti. Mi è parso che Draghi lo avesse molto chiaro nei nostri incontri di gennaio tra Città

della Pieve e Roma, ma che i suoi due principali collaborat­ori non lo abbiano capito per niente. Segno evidente che a Palazzo Chigi, oggi, il più politico di tutti è proprio il premier.

Peccato perché questa incapacità di leggere la politica dei tecnici draghiani ha impedito una soluzione che poteva essere difficile da costruire, ma molto utile per il Paese.

Chi per qualche ora ha assaporato l’elezione è stato Pier Ferdinando Casini, il decano dei parlamenta­ri, un moderato apprezzato in tutti gli schieramen­ti. Ma alla fine — questa è la verità — non è stato voluto da Salvini e dalla Lega, nonostante il placet che da Forza Italia al Pd era arrivato in modo più o meno esplicito. Sono testimone del fatto che Casini ha vissuto come sull’ottovolant­e quelle ore, ma sempre con una tenuta di nervi e un rispetto istituzion­ale che lo qualifican­o per quello che è, un galantuomo, e che fanno immaginare che avrebbe servito benissimo il Paese alla presidenza della Repubblica come lo aveva già fatto alla presidenza della Camera.

Quando ho capito che era tutto finito, ho chiamato Casini e gli ho offerto una pizza e una buona bottiglia di champagne a casa mia a Roma, con un nostro comune amico. Doveva essere la cena della condivisio­ne della sconfitta perché io so per esperienza diretta che quando si vince sono tutti lì e quando si perde si è da soli. Così il giovedì sera chiamo Pier e condivido una buona bevuta scherzando e prendendoc­i un po’ in giro. Mi fa sentire il finale del primo discorso che avrebbe pronunciat­o a sedute riunite: bellissimo, con una citazione toccante di papa Giovanni Paolo II.

«Bel lavoro, tienilo per il 2029» gli dico scherzando. Lui mi manda a stendere: «Me lo hai già detto sette anni fa». E ovviamente ci ridiamo sopra come fanno due profession­isti che sanno che in politica le cose non vanno quasi mai come vorremmo.

Verso le 23, ennesimo colpo di scena: telefonata dal quartier generale Lega-Forza Italia, Casini torna in pista. Berlusconi e Salvini sembrano pronti a sostenerlo. La cena della sconfitta finisce lì. Gli dico: «Amico mio, se perdi io ci sono. Ma ora che rischi di vincere, io non servo più». E ci salutiamo allegri. La mattina dopo ennesima doccia fredda: Salvini torna a flirtare con Conte, stavolta sulla Belloni, Casini ripone la citazione di Giovanni Paolo II nel cassetto, l’Italia continua ad aspettare...

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