UN POEMA DI TERRA
Il Giro attraversa il Molise Una zona che esiste eccome: con i suoi borghi, il pane saporito, i boschi. Poi si arriva in Abruzzo
Nel centro storico a vicoli e vicoletti, tra ristoranti tipici e B&B, i tanti palazzi nobiliari dall’aspetto ancora solenne e le botteghe artigiane, in un pittoresco disordine di pietra e di mattoni, ci si ricorda che, malgrado sia la provincia «giovane» di una giovane regione (il Molise conquistò l’autonomia dai cugini abruzzesi nel 1963, Isernia il titolo di capoluogo provinciale solo nel 1970), Isernia ha un antichissimo passato, sannita e romano.
Testimonianze copiose risalgono addirittura al Paleolitico; nel 1979, durante i lavori di sbancamento per una superstrada, venne casualmente alla luce uno straordinario giacimento archeologico databile circa 700.000 anni fa. Si parlò di Homo Aeserniensis; il Museo nazionale del paleolitico, in località La Pineta, merita senz’altro una visita. Anche il simbolo della città, la Fontana Fraterna, considerata una delle più belle d’Italia, a forma di loggiato, sontuosa ed elegante, conserva il segreto delle tante vite che il capoluogo pentro ha vissuto.
La fontana non è stata edificata con blocchi che provengono da una cava, bensì utilizzando lastre, colonne e pezzi di edifici già presenti, alcuni dei quali risalenti ai tempi in cui si parlava il latino. I sei getti d’acqua dall’orlo azzurro, tra spuma e schizzi, liberano il respiro e suscitano un sentimento estetico e fisico.
Molto fisica è l’esperienza olfattiva — ma anche visiva, perché spesso le specialità sono appese e perfettamente distinguibili anche dall’esterno — che si compie nel dedalo del cuore cittadino: qui è tutto un tripudio di agnello, di scamorze, di burrini e stracciate, di caciocavalli, di salsiccia e soppressata.
Ma il re, senza dubbio, è il pane. Il pane dell’intera provincia, non si sa se per virtù dell’acqua, del lievito o dell’aria (un po’ come per la misteriosa faccenda che il caffè di Napoli non ha uguali) è di qualità superiore, spesso impastato con le patate, nutriente e buonissimo, con l’unico difetto che si finisce per mangiarne troppo.
Se intendete assaggiarlo, è bene riservargli un certo spazio in macchina, perché il pane molisano in genere, e quello isernino in particolare, non lo si può infilare in tasca o trasportare con disinvoltura sottobraccio come una baguette. Nella sua forma canonica pesa due chili (non per niente si chiama «ruota di pane»), se non addirittura tre.
Lasciando Isernia, mentre il percorso si snoda, i colori di una speciale trottola si alternano rapidamente, le cime appenniniche ancora innevate e lo smagliante verde primaverile, la lucentezza dei corsi d’acqua, le macchie in movimento dei greggi di pecore e delle mandrie di cavalli. Si tocca con mano il Molise poco popolato, semiselvaggio, un poema di verde, quello che, come si dice «non esiste», composto più di vuoti che di pieni, di borghi di poche centinaia di abitanti e di ampi spazi che neppure si possono dire «a misura d’uomo», perché l’uomo non c’è.
La singolarità del Molise suscita lo stupore dei turisti che giungono dalle affollate città del Nord, i quali stanno acquistando (peraltro a bassissimo prezzo) nei nostri paesini case affacciate su dirupi e valli, olivi torti e declivi sinuosi, con camino e forno a legna incorporati, in concorrenza con molti stranieri, inglesi, olandesi, belgi, tedeschi, perfino australiani e statunitensi.
Si cerca casa in Molise perché spesso ci sono ancora parole e attenzioni per tutti, un certo spirito di saggezza e atmosfere intime che ci calmano e riposano l’animo. L’ultimo paese molisano è Rionero Sannitico, poi ci si trova nell’Abruzzo aquilano. Allo spettacolare arrivo in salita, sul dorato e brullo Blockhaus, ci sentiamo, come a ogni tappa del Giro, invitati a una festa. E se, ritornando dal Molise, avremo in macchina una bella «ruota» di pane, una provvista di scamorze, olio e soppressate, gli occhi ancora pieni di colori, la mente ancora accarezzata dal silenzio, la festa sarà stata ancora più grande.
Si tocca con mano un territorio fatto più di vuoti che di pieni, di centri di poche centinaia di abitanti e di ampi spazi che neppure si possono dire «a misura d’uomo» Perché l’uomo non c’è