Eco, tutti i confini dell’arte
Raccolti in un volume sessant’anni di interventi del romanziere e semiologo
Nel 1967 Umberto Eco era subentrato a Gillo Dorfles come docente alla facoltà di architettura di Firenze con un corso di Semiologia delle comunicazioni visive. La dispensa di quell’anno, dedicata a Leonardo Ricci (che lo aveva chiamato in cattedra), anticipava l’approccio strutturalista all’arte e all’architettura reso evidente l’anno successivo con la pubblicazione di La struttura assente. Sulla base dello Strutturalismo di Émile Benveniste, Roman Jakobson e Jan Mukarovsky per l’Eco fiorentino la semiologia era la scienza in grado di studiare tutti i fenomeni culturali come sistemi segnici, quindi anche le pratiche artistiche. Lo Strutturalismo si configurava come un Purovisibilismo alle estreme conseguenze dove il compito dello studioso d’arte diventava quello di smontare l’opera per descriverla attraverso il linguaggio astratto della semiologia, al di fuori di interpretazioni personali, psicologiche o storiciste.
Questo approccio trionfante, però, stava stretto a Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932Milano, 19 febbraio 2016) che lo aveva affiancato con una lettura delle pratiche artistiche vicina all’Ermeneutica, quindi al ruolo della ricezione, dell’osservatore e dell’accrescimento di valore estetico. Opera aperta (1962) fu un libro di rottura contro il cono d’ombra del crocianesimo avversato anche da Luigi Pareyson, Dino Formaggio ed Enzo Paci, ma anche un’alternativa ai dogmi strutturalisti e l’invito a un’indagine a 360 gradi dell’opera che, nel caso di Eco, privilegiò aspetti popolari e sofisticati, dai fantasiosi repêchage medievali o secenteschi alla musica elettronica. Così, in Discorso poetico e informazione Eco afferma che ogni segno distintivo della modernità
è la liceità di creare, con ogni nuova opera, un nuovo sistema linguistico lasciando aperta la sua interpretazione. Come notato da Johnatan Culler (pubblicato da Eco in Interpretazione e sovrinterpretazione) è proprio il «fluire involontario» di informazioni sull’opera che consente di capirla meglio.
Queste posizioni si ritrovano negli scritti di Umberto Eco dedicati alle arti che, meritoriamente,
La nave di Teseo (casa editrice fondata da Eco con Elisabetta Sgarbi) ha raccolto con la cura di Vincenzo Trione. Sono mille pagine, eterogenee ed eterodosse poiché vi sono saggi di estetica, prefazioni o interventi in cataloghi d’arte, articoli giornalistici, «Bustine di Minerva» (rubrica tenuta per trent’anni sull’«Espresso»), brevi schizzi sugli amici come Nanni Balestrini e Tullio Pericoli, impressioni su artisti come
Carmi, Baj, Tadini, Morandi e anche testi dimenticati o sconosciuti. Eco fu un infaticabile poligrafo e la realizzazione di questo «libro involontario» (il professore confessò di non avere mai dato un esame di Storia dell’arte), è stata opera che ha richiesto un contributo di ricerca e redazione di più persone.
Le pagine più note sono quelle dedicate alle teorie estetiche (messaggio estetico, codici visivi...) e al cattivo gusto o kitsch, rivalutato in quegli anni a partire dalla Estetica del brutto di Karl Rosenkranz. Anticipatrici sono le pagine sul rapporto tra opere d’arte e oggetti d’uso, gustose quelle come «Voglio sposare un quadro» o quelle relative a polemiche, attuali quelle sul falso e sull’autentico nell’arte. Sfogliandolo il ricchissimo tomo, ci si chiede: come può un «discorso» così pregnante, sperimentale e capace di dare forza a scuole come il Dams, la Iulm e altre, essere stato rapidamente dismesso nel metodo di molte ricerche universitarie contemporanee? Certo, ci si è affrancati dal contesto ideologico in cui questo «discorso» si autopromuoveva nella intellighenzia; ma la repentina liquidazione dell’approccio postmoderno, nel quale questi pensieri sono stati concepiti, da cosa è stato sostituito? Da una pseudoscienza digitale che ha bandito l’affabulazione erudita (quella sui musei cartacei, sulle raccolte di mirabilia, sulle curiositas...), che rifugge la presenza di alto e basso (evidente nei saggi sulla bellezza dove si spazia da Tommaso d’Aquino a John Wayne), che censura l’ampia conoscenza interdisciplinare ammettendo solo sterili iperspecialismi. Ed è curioso ricordare che proprio l’acculturato poligrafo Eco fu l’unico nostro «umanista» presente negli elenchi dell’indice di Hirsch tra gli scienziati di tutto il mondo!
Oggi dilagano un pragmatismo sterile, approcci neuroscientifici applicati alle arti o digitalizzazioni di archivi o di conoscenze note su incessantemente nuovi supporti informatici, con perdita di connessione con la complessità e la società. Da qui anche la disgiunzione tra ricerca da una parte, divulgazione e industria culturale dall’altra, ove in Eco tutto ciò era connesso e fertile. A distanza di pochissimi anni, questa raccolta di saggi ci invita a lottare per difendere l’approccio alla cultura di Eco se vogliamo respirare una boccata d’aria sulle arti e sull’estetica.