L’infanzia è ormai «exfanzia» Magrelli scivola nell’età adulta
Versi Un volume di poesie (Einaudi) riunisce gli scavi geologici all’interno di una nuova stagione dell’esistenza
Èsempre bene leggere un autore per intero, stare in sua compagnia a lungo, percorrerlo con pazienza: allora ci appaiono le connessioni, le riprese all’interno dell’opera, il suo profilo profondo. Ciò è tanto più vero per uno scrittore come Valerio Magrelli (Roma, 1957), che ha fatto della riscrittura, del ritorno sulla propria stessa parola, dell’autocitazione (oltre che delle citazioni da altri) un modo di essere. Davanti al suo nuovo libro di poesia (la produzione pregressa è raccolta quasi per intero ne Le cavie, del 2018), si ha l’impressione di un rafforzarsi di tale procedimento: ogni parola, immagine, figura ne implica una precedente. E leggiamo allora questo Exfanzia (Einaudi), in cui anche il titolo, che allude e si oppone al termine «infanzia», deriva da un altro luogo dello scrittore. Il libro è composto da pietruzze, corpuscoli, trucioli, eppure rimanda nel suo insieme a un organismo: quello dell’autore.
Sappiamo che Magrelli ha pubblicato nel 2013 Geologia di un padre, libro di prosa dedicato a un’indagine sulla figura paterna. In precedenza, aveva scritto in forma prosastica quel minuzioso catalogo-referto sulla propria corporeità che è Nel condominio di carne (2003). Ebbene Exfanzia assomiglia a una sorta di geologia di se stesso, del se stesso che si sta avviando a diventare maturo, se non proprio anziano, come fu a suo tempo il padre. Ed ecco che le pietruzze, le tessere sparse contribuiscono a un’immagine organica: quella dello stesso poeta, che è il centro del discorso, con i propri mali, le disavventure, gli aneddoti, i filamenti familiari. Magrelli parla di Magrelli, del proprio sangue amaro (come suona il titolo della raccolta del 2014), del proprio perenne perdersi nel mondo come fosse un’entità ostile («Mi perdo, mi perdo, mi perdo»). A proposito, nella citata Geologia, il discorso del padre a uno degli ultimi compleanni si concludeva con un «Io sono pieno d’odio per il mondo». Ecco, per via genetica quella di Magrelli appare come una poesia dell’idiosincrasia, del fastidio, del taedium. È perciò disseminata di invettive, lamentele, proteste e tesa a desacralizzare l’esperienza come forma di deriva e di dispersione, salvo la zona irradiante degli affetti più cari e qualche accenno di pietas.
Se l’acme dell’indignazione era raggiunta ne Il sangue amaro, ora si fanno strada anche l’autoironia e persino l’umorismo. La pagina di Magrelli è spesso un gioco di prestigio: trasforma la percepita lagna della vita, l’angoscia della ripetizione in occasione di gioco intellettuale, di riso. Basta leggere Magneti Magrelli: «È un fatto, su, prendiamone atto:/ io attiro deficienti, gente cui manca qualcosa». E più oltre: «Da me vengono solo deficienti./ A meno... orrendo dubbio:/ a meno che non diventino tali/ A CAUSA MIA./ A meno che non sia io, la nuova Circe/ che li trasforma in porci./ E se fosse così? Ah, che tragedia!/ Inutile lamentarsi, allora./ Prego./ Accomodatevi pure».
Ecco, la poesia di Magrelli, con il suo universo a-teologico, è un oggetto sottratto a ogni sublimazione. Dal punto di vista estetico è un compromesso, un ibrido, all’insegna della commistione e del riciclo, oltre che del gioco (si veda un poemetto come Guardando le serie tv). Al centro rimane il lancinante meccanismo del soggetto sorpreso nel suo andare in crisi, nel suo incepparsi. L’intera opera di Magrelli, come un continuum, un’unica calcografia, aderisce alla sagoma dell’individuo che la produce, ai suoi sgomenti, alle sue paure (un altro poemetto del libro verte su quelle epocali: pandemia ed emergenza ambientale). Il poeta disegna insomma, attraverso la poesia, se stesso e più precisamente, qui, un se stesso che avanza verso un’età inclemente: «Chiacchiero e intanto/ la vecchiaia-tarlo/ mi va nebulizzando» (a proposito della serie tv Il metodo Kominsky).
Muovendosi verso quel punto della vita le ansie, gli inganni ottici, gli smarrimenti dell’autore si infittiscono. Abbiamo così l’impressione di assistere a un processo di invecchiamento della stessa poesia, a un farsi pre-senile del suo già limpido congegno, come poteva presentarsi agli esordi, per quanto assorti e mentali, di Ora serrata retinae (1980). La poesia di Magrelli, con un decorso quasi biologico, discende, si polverizza, aderisce a un’usura patologica: «Forse con l’età scompare/ qualcosa di analogo alla cartilagine,/ un tessuto psichico/ che fa da cuscinetto/ tra la creatura e la sua vita./ I due punti si toccano, e fa male./ Si arriva troppo vicino alla corrente,/ e brucia».