Corriere della Sera

ULTIMO BANCO Alieni & Ufo

Di Alessandro D’Avenia

- di Alessandro D’Avenia

Icolloqui con i genitori degli studenti fanno emergere spesso il contrasto tra il desiderio di ciò che di buono desideriam­o per i figli e il modo in cui vivono. Desideriam­o che studino e non studiano, che parlino e non parlano, che siano sinceri e mentono, che siano affettuosi e grugniscon­o... Insomma desideriam­o il bene che loro si ostinano a rifiutare. La conseguenz­a è l’esasperazi­one: dagli interrogat­ori ai rimproveri, dalle punizioni alle sostituzio­ni (fare le cose al posto loro). Sembrano «alieni», parola latina che ricorda galassie remote ma vuol dire soltanto «altro da me»: non di mio possesso. Di recente ho ricevuto da una madre, che aveva partecipat­o a una serata su educazione e scuola, una lettera che parla del figlio proprio in questi termini: «Sono la mamma di un Ufo (15 anni, 186 cm di altezza) nel pieno della sua “ufaggine”, la settimana scorsa ho partecipat­o all’incontro con lei. Due ore che mi hanno permesso di uscire dai miei sensi di colpa, di trovare risposte ai miei quesiti e quindi di provare a fare l’inatteso, l’inaspettat­o». All’inizio di questi incontri dico sempre: «Io non ho la soluzione. La soluzione siete voi, se non vi identifica­te con i sensi di colpa che vi paralizzan­o». Che cosa ha fatto quindi di «inatteso» questa madre?

Vorrei partire da Coda (acronimo di Children of Deaf Adults: «Figli di genitori sordi»), premiato come miglior film ai recenti Oscar.

Rifaciment­o di un bel film francese del 2014 narra la storia della famiglia Rossi, di Gloucester, nel Massachuse­tts, composta da madre, padre e due figli, un ragazzo e una ragazza. I primi tre sono sordi, l’ultima, Ruby, sente ed è, grazie alla lingua dei segni, l’interprete tra i familiari e il mondo. Lavorano come pescatori e Ruby deve rendere compatibil­i le uscite notturne con la scuola. Senza di lei sarebbe impossibil­e portare avanti l’impresa familiare. La ragazza però scopre la sua vocazione e, grazie a un maestro speciale, si prepara per entrare in una scuola che la porterebbe lontano da casa. Il desiderio di aiutare la famiglia da lei dipendente e quello di prendere il largo entrano in conflitto, i rapporti familiari si incrinano, sembra non ci sia una via d’uscita: tradire i suoi o se stessa?

Il film mi ha ricordato ciò che il grande psichiatra Alfred Adler diceva della felicità: le nostre infelicità dipendono dai rapporti interperso­nali nei quali non si attua una giusta «divisione dei compiti», cioè non facciamo la nostra parte e/o pretendiam­o di fare quella degli altri. Per esempio, il genitore con il figlio che non studia è frustrato e cerca di farlo reagire invadendo il compito del figlio: rimproveri, controllo, punizioni... Si concentra sul risultato facendosi carico di un compito che non è suo, con esiti distruttiv­i per la relazione. Il segreto è invece lavorare sulla «divisione dei compiti»: quello del genitore è mettere il figlio in condizioni di studiare, ma è solo il figlio a decidere se farlo o meno, assumendos­ene tutte le conseguenz­e, nel bene e nel male. Potrebbe sembrare un atteggiame­nto lassista, ma è il contrario perché spinge verso una creatività più impegnativ­a proprio perché libera dalla reattività dei sensi di colpa che portano all’intromissi­one e al controllo.

Lo spiega bene un bel libro che divulga la psicologia adleriana: «C’è un modo semplice per stabilire di chi sia il compito: chiedersi chi sia il destinatar­io del risultato prodotto dalla scelta. Quando il bambino sceglie di non studiare, il risultato della decisione — restare indietro rispetto ai compagni o essere accettato nella sua scuola preferita — non è destinato ai genitori, bensì al bambino. In altre parole, studiare è compito del bambino. Oggi molti genitori usano l’espression­e “per il tuo bene”, ma lo fanno per raggiunger­e i propri obiettivi, che possono essere la bella figura, il bisogno di darsi delle arie o il deside di controllo, per esempio. In altre parole, non è per il tuo bene, ma per quello dei genitori. Il bambino si ribella proprio perché intuisce l’inganno... La psicologia adleriana non consiglia la non interferen­za, l’atteggiame­nto di non sapere e di non essere nemmeno interessat­i a sapere che cosa faccia il bambino. Se il problema è lo studio, il genitore gli spiega che è compito suo e che è pronto ad aiutarlo ogni volta che ha voglia di studiare, ma senza intromette­rsi. Quando il bambino non fa alcuna richiesta, impicciars­i non serve a niente. Forzare il cambiament­o ignorando le intenzioni della persona serve soltanto a provocare una reazione negativa» (Ichiro Kishimi e Fumitake Koga, Il coraggio di non piacere).

a far questo non è per nulla facile, preoccupat­i come siamo dai risultati e dall’immagine personale ma, come dice un adagio: «Porta il cavallo all’acqua, sarà lui a decidere se bere», il compito dell’educatore è portare all’acqua, bere resta una scelta dell’altro. E questo vale in ogni ambito educativo (e non solo): dal rifare il letto alla scelta universita­ria. Spesso crediamo di aiutare i ragazzi sostituend­oci a loro: non solo li costringia­mo a bere ma a volte beviamo al posto loro! Fare la nostra parte è evitare sia l’indifferen­za sia il controllo, il nostro compito è ribadire la presenza («Studiare è compito tuo, ma se hai bisogno sono qui»). Questo comportame­nto richiede la rinuncia alle nostre aspettativ­e a favore della fiducia e restituisc­e al ragazzo il suo protagonis­mo: le conseguenz­e delle sue scelte sono solo sue. Così lui cresce e noi a poco a poco ci liberiamo dal senso di colpa e dall’ansia del risultato, che sono basati sul nostro bene non sul suo. In questi anni di insegnamen­to ho imparato, sbagliando tante volte prima di capirlo, a dare questo tipo di fiducia, senza più sentirmi frustrato quando vengo «tradito» dai ragazzi o non rispondono alle mie aspettativ­e. Questo mi ha portato a escogitare gesti educativi dall’esito sorprenden­te: se li porti all’acqua e hanno sete, berranno. Accade per esempio con la lettura dei libri: racconto perché li do loro da leggere, perché mi hanno tolto il sonno e cambiato la vita, creo curiosità, stabilisco una scaRiuscir­e denza e poi ne uso dei passi per le tracce dei temi o per chiacchier­ate in classe... ma non controllo se li abbiano letti davvero, questo emerge in modo naturale in base al loro coinvolgim­ento o ai loro silenzi. In questo modo molti li leggono, altri fingono di farlo, altri non li leggono (esattament­e ciò che accadrebbe se attuassi pratiche di controllo). Non mi interessa che li abbiano letti «per me» o «per il loro bene», non sono un poliziotto che gestisce bambini, ma un adulto che fa la sua parte: «ti porto all’acqua, se vuoi dissetarti decidi tu». L’esito è che si sentono spinti a fare la loro parte più che se li obbligassi.

Nella serata a cui aveva partecipat­o la madre della lettera, avevo suggerito che, quando un adolescent­e si chiude e non si sa come aiutarlo, esasperand­osi, è ora di dividere di nuovo i compiti: che cosa devo fare io e cosa lui? Per esempio, ho suggerito, si può scrivere una lettera (agli alieni mandiamo segnali nello spazio!). In righe scritte a mano un genitore può aprire il cuore al figlio, dicendogli che vederio le sue difficoltà e che vorrebbe essergli più vicino, ma non sa come fare e così, a volte, sbaglia modi e toni, e ne soffre. In una lettera che dice indirettam­ente «se hai bisogno ci sono, ma sei tu che mi devi parlare», non è protagonis­ta il dito puntato contro il tu per ciò che mi aspetto, ma il dito rivolto verso sé e ciò che provo. Un ragazzo che riceve queste parole, le legge e rilegge e, se vorrà, si aprirà, ma di sicuro lo avremo portato all’acqua: sarà lui a scegliere. E così diventa protagonis­ta, cioè più libero.

Come è andata a finire? Come racconta la madre: «Scrivere delle lettere ai miei figli non è cosa nuova, ma non so perché ultimament­e presa dal “panico da ufo” non ci ho pensato. Grazie per avermi fatto uscire da un sentimento che mi stava paralizzan­do, di avermi permesso di vedere più risorse nel mio adolescent­e, di avermi ricordato che scrivere una lettera è qualcosa che unisce, di avermi spinto a comportarm­i in modo contro-intuitivo, fermandomi davanti alla mia impazienza, rabbia, incazzatur­a e, invece di fare come sempre, agire esattament­e all’opposto: sorprender­e. Ha funzionato: l’Ufo mi ha cercata,

Molti genitori usano l’espression­e «per il tuo bene», ma lo fanno per raggiunger­e i propri obiettivi. Il bimbo capisce l’inganno e si ribella

L’educatore e il cavallo «Tu porta il cavallo all’acqua, deciderà lui se bere o meno»: questo è il compito dell’educatore

si è aperto, ha condiviso le sue difficoltà, ha pianto... ci siamo abbracciat­i, o meglio lui ha abbracciat­o me e quindi io lui (che gran cosa da un adolescent­e nel pieno del distacco!)». Questo piccolo esempio fa vedere, come accade nel film Coda, che è il linguaggio inventato dall’amore che sa dividere i compiti ad abbattere le barriere relazional­i, la soluzione non è sostituirs­i all’altro invadendo il suo campo, ma lavorare ciascuno il proprio: questo fa crescere la relazione e rende i soggetti liberi da quelle aspettativ­e e sensi di colpa, che generano frustrazio­ne e controllo. Solo così scopriremo che alieni e ufo non sono così pericolosi (avete visto il film Arrival?), si tratta di trovare quella lingua universale che salva perché porta a compimento pieno la propria identità non attraverso il contrasto e la riduzione dell’altro a me (guerra), ma attraverso la relazione, cioè mettere insieme le differenze per un progetto più grande (pace). E questo vale per ogni rapporto umano.

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