UNA DIVINITÀ CORPOREA
LA FISICITÀ DI YAHWEH NELLA BIBBIA EBRAICA OFFUSCATA DALLE CONCEZIONI DEI TEOLOGI
Un saggio di Francesca Stavrakopoulou, edito da Bollati Boringhieri, propone di riscoprire un’immagine di Dio «i cui passi scuotevano la terra, la cui voce tuonava nei cieli, la cui bellezza e luminosità accecavano i devoti»
Da tempo abbiamo fatto nostra l’idea cristiana di Dio come di un essere trascendente, invisibile e incorporeo. Ma si tratta di una «rifrazione distorta» sostiene Francesca Stavrakopoulou in Anatomia di Dio che la Bollati Boringhieri sta per mandare in libreria. Il Dio reale della Bibbia era assai diverso. Aveva una sua prorompente «fisicità». Era un’antica divinità levantina «i cui passi scuotevano la terra, la cui voce tuonava nei cieli, la cui bellezza e luminosità accecavano i devoti». Tale divinità aveva modellato gli esseri umani secondo le forme degli dèi a partire dall’argilla e aveva insufflato la vita attraverso le loro narici. Era un Dio che «piangeva, parlava, dormiva». E che «teneva il broncio». Un Dio che «provava emozioni, combatteva, amava, e che veniva sconfitto». Un Dio che «a volte falliva e a volte trionfava». Un Dio «che rispecchiava il meglio e il peggio di noi». Un Dio, si potrebbe dire, «fatto a nostra immagine e somiglianza». Chi gli ha fatto perdere questa sua fisicità?
Secondo Stavrakopoulou sono stati gli intellettuali occidentali, a partire dagli illuministi, ad accanirsi su quanto restava dell’autentico Dio biblico. Per poi ridurlo a «un fantasma senza vita frutto della fervida immaginazione umana». Ma — come si può desumere dal libro di Thomas Römer, L’invenzione di Dio (Claudiana) nonché da quello di Michael L. Satlow, E il Signore parlò a Mosè. Come la Bibbia divenne sacra (Bollati Boringhieri) — il Dio delle origini era tutt’altro che incorporeo. Il Dio della Bibbia, afferma Stavrakopoulou, «non assomigliava per niente alla divinità sezionata, fatta a pezzi e poi liquidata dagli atei moderni». Quel Dio «assassinato dagli intellettuali razionalisti della filosofia occidentale e dalla scienza» non esiste nella Bibbia. La «divinità morta» del Settecento è invece «un essere ibrido post-biblico, un’intelligenza artificiale incorporea prescientifica e assemblata nel corso di più di duemila anni a partire da rottami scelti all’interno delle correnti mistiche del giudaismo, della filosofia greca, della dottrina cristiana, dell’iconoclastia protestante e del colonialismo europeo».
Oggi «questo essere chimerico» è diventato «un Dio che si è dimenticato di creare i dinosauri e che non ha tenuto conto dell’evoluzione». Un Dio «che è ovunque e che vede tutto ma che resta assente e non dice mai nulla». Strano, no? Il fatto è che «il Dio dell’Occidente e il Dio della Bibbia sono due esseri distinti». Completamente distinti.
Il divieto biblico di attribuire immagini al divino viene abitualmente spiegato con la natura incorporea di Dio, ciò che rende quest’ultimo diverso da qualunque altra divinità del mondo antico. Un «essere sovrannaturale e divino impossibile da modellare e da raffigurare con l’argilla, il metallo, il legno o la pietra proprio a causa della sua incorporeità».
La promozione di un’adorazione priva di supporti visivi — come è ben chiaro in Il libro dei libri. Una storia della Bibbia (Garzanti) di John Barton — indica però tutt’altro. Anche i culti delle varie divinità egizie, assire, babilonesi e fenicie, nota Stavrakopoulou, avevano attraversato periodi di «adorazione aniconica» nonostante persino tali divinità fossero ritenute dotate di un corpo. Cosa cambierà con i culti che traggono ispirazione dalla Bibbia? La proibizione riguardo alle immagini divine presente nei Dieci Comandamenti «pone l’accento sull’occultamento del corpo di Dio». Il condottiero del popolo eletto — in L’ultimo discorso di Mosè (Giuntina) di Micah Goodman — ricorda agli israeliti il loro incontro con Dio sulla strada verso la Terra promessa, quando si erano raccolti ai piedi della montagna sacra per ascoltare la divinità mentre annunciava i termini del suo patto con loro. Una volta disceso dal monte Sinai, Dio, fa notare Stavrakopoulou, «non si era rivelato alla vista umana» e «tutto ciò che gli israeliti riuscirono a scorgere di lui fu il fuoco celeste e un’oscura nube cosmica avvolgere la cima del monte».
Allora perché nella Bibbia ebraica i devoti sembrano desiderare più di ogni altra cosa un incontro faccia a faccia con Dio? «Quando verrò e vedrò il volto di Dio?», si domanda uno di questi fedeli nel libro dei Salmi. «Nella giustizia io contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine», promette un altro. Sarebbe fin troppo facile sottovalutare parole come queste e tenerle nel conto di speranze o fantasie di persone semplici. E invece non si tratta affatto di fantasticherie prodotte da immaginazioni fervide. Con parole come queste, scrive Stavrakopoulou, «i devoti esprimevano la speranza di ottenere il privilegio di compiere un pellegrinaggio fino a un tempio dove, se fortunati o abbastanza importanti, avrebbero potuto osservare la statua della divinità in tutta la sua gloria». In un mondo dove le statue divine erano considerate alla stregua di una manifestazione degli dèi, prosegue la storica, «osservare l’immagine divina in un tempio era equivalente ad avere un incontro personale con il proprio dio».
Tutto ciò preesisteva alla Bibbia. Gli artigiani dell’antica Asia sud-occidentale ci hanno lasciato alcune suggestive tracce di come doveva essere l’incontro con la divinità. Nel corso del periodo protodinastico della cultura sumera (all’incirca tra il 2900 e il 2334 a.C.) i «devoti abbienti» erano soliti commissionare rappresentazioni artistiche di sé stessi da presentare nei templi ai loro dèi. Queste statuette votive in gesso o calcare stavano in piedi, «come rapite in estasi di fronte agli dèi». La rappresentazione era sempre la stessa: le mani giunte all’altezza della vita, le bocche chiuse in silenzio, gli occhi spalancati e le sopracciglia sollevate. Gli dèi si manifestavano nelle statue dei templi, ma anche i devoti sumeri dovevano avere un modo tutto particolare di prender parte all’«incontro»: «poste di fronte al divino», le statuette degli osservanti erano come «rapite in uno stato permanente di adorazione». In merito a questo tema e in relazione alle prime immagini cristiane sono assai interessanti le riflessioni proposte da Thomas F. Mathews in Alle origini delle icone (Jaca Book).
L’intensità emotiva di un incontro faccia a faccia con una statua divina, prosegue Stavrakopoulou, era stata «sperimentata» da intere generazioni di devoti nell’Asia sud-occidentale. Mille anni dopo che «le statuette su
mere avevano smesso di guardare i loro dèi», i sovrani mesopotamici continuavano ad essere «sbigottiti dall’esperienza religiosa che si provava durante uno di questi incontri». Ne sta a testimonianza una tavola di pietra — prodotta durante il regno del re di Babilonia Nabu-aplaiddina (sul trono dall’887 all’855 a.C.) — che descrive il restauro della statua del dio solare Shamash distrutta dai Sutei provenienti dal deserto siriano. In assenza di questa statua, i devoti, giunti al santuario di Sippar, presentavano le loro offerte al simbolo del dio, un disco solare. Dopodiché attendevano che Shamash concedesse loro «il permesso per ricreare la statua divina». Permesso che alla fine era giunto attraverso una scoperta «miracolosa»: un furbo sommo sacerdote, Nabu-nadìn-shumi era riuscito a «trovare» («in modo del tutto fortuito», scherza Stavrakopoulou) un modello in terracotta della statua originale dal quale se ne poteva modellare «una nuova versione in lapislazzuli e oro».
Torniamo alla Bibbia. Molto «fisica» è la battaglia che vede contrapporsi Dio, Yahweh, e il mostro delle acque caotiche dei primordi i cui vari nomi testimoniano una «natura acquatica pericolosa e disordinata»: Leviatano (il «contorto» o il «tortuoso»), Raab (la «piena» di un corso d’acqua), Yam (il «mare»), Nahar (un «fiume» travolgente), Tannin («drago marino») e Tehom (il «profondo»).
Molti di questi nomi sono gli stessi degli arcinemici acquatici e primordiali affrontati da Baal negli antichi miti di Ugarit. Israel Finkelstein in Il regno dimenticato. Israele e le origini nascoste della Bibbia (Carocci) ha affrontato questo tema. In molti testi biblici, Yahweh viene lodato per aver «respinto» Yam, per aver «spezzato la testa del Leviatano», per aver «ferito e calpestato Raab», e per aver «fatto a pezzi» il «cadavere del caos» onde farne «scaturire fonti e torrenti».
Secondo il libro di Giobbe, questo enorme mostro marino aveva una pelle corazzata con fitte squame simili a file di scudi impenetrabili; fiamme scaturivano dalle sue fauci, un fumo rovente usciva dalle narici e quando starnutiva emetteva fulmini. Quando «ruggiva e si dimenava», questa specie di drago «faceva bollire le acque primordiali» producendo «una schiuma così densa da far apparire il mare bianco». Il mostro marino terrorizzava le altre divinità «dell’entourage di Yahweh». «Quando si alza, gli dèi si spaventano e per il terrore restano smarriti», afferma Yahweh. «Nessuno è tanto audace da poterlo sfidare: chi mai può resistergli? Nessuno è tanto ardito da osare eccitarlo e chi mai potrà restare saldo al suo cospetto? Chi mai lo ha assalito e ne è uscito illeso? Nessuno sotto ogni cielo». Domande retoriche. Perché quel qualcuno in realtà esiste ed è appunto lui stesso: Yahweh, il Dio della Bibbia. Un Dio «reale» che — sostiene Stavrakopoulou — va riscoperto «in tutta la sua fisicità scandalosa». E «senza alcuna censura». Giunto è il tempo di «grattare via la patina teologica accumulatasi sui testi biblici nel corso di secoli e secoli di devozione ebraica e cristiana». Il risultato di questa operazione di «restauro» sarà la scoperta di «un Dio che non assomiglia per niente al Dio venerato oggi da ebrei e cristiani». E che «finalmente ci appare come doveva essere immaginato dai suoi antichi devoti»: un «Dio enorme, muscoloso, dai poteri sovrumani, dalle passioni terrene e con un’inclinazione per il fantastico e il mostruoso».
Il Dio della Bibbia però, scrive ancora Stavrakopoulou, «disapprovava le masse che stavano a guardarlo imbambolate». I racconti dei suoi primi incontri con le tribù israelite mettono in risalto i protocolli adottati per tutelare la divinità. Per proteggerla «dalla folla, dai ficcanaso e dai curiosi». Dopo aver stabilito un confine ai piedi della montagna sacra, Dio spiega a Mosè che gli israeliti devono astenersi dall’accorrere di corsa per vederlo fino a quando non abbiano sentito il suono di un corno celeste. Mentre «il suo tempio del deserto viene ripiegato per prepararsi al viaggio verso la Terra Promessa, Yahweh avverte quei sacerdoti che non hanno adottato le appropriate misure di sicurezza e che «vorrebbero dare un’occhiata al Sancta Sanctorum ancorché questo non sia stato appositamente addobbato», li esorta a «stare in guardia perché avrebbero potuto pagare con la vita» per la loro decisione di guardarlo. Anche se lo avessero fatto per nobili motivi e «per un solo istante».
Tale principio basilare dell’etichetta religiosa — nel primo libro di Samuele — viene dimenticato o ignorato da settanta abitanti di Beth Shemesh che vorrebbero vedere quantomeno il poggiapiedi di Yahweh: questo atto di «svergognato voyerismo» viene punito con la morte. Fissare senza pudore Yahweh era considerato un’offesa divina. Dal punto di vista teologico, puntare lo sguardo su una divinità era sconveniente e sconsigliato perché riduceva la divinità stessa a mero oggetto. Ma perché ci si intestardiva a tal punto sul desiderio, di per sé non ignobile, di entrare in un qualche contatto, anche solo visivo, con Dio?
Per conferire «potere» ai sacerdoti. I racconti che mettevano in guardia dal guardare Yahweh con bramosia, spiega Stavrakopoulou, rafforzavano, appunto, la posizione e il potere dei sacerdoti nonché del personale del tempio. Tutte persone che avevano l’autorità richiesta per concedere l’accesso alla divinità». Saranno le loro teologie a «dominare la Bibbia». Come per molte forme particolarmente potenti di cultura visiva contemporanea, il permesso necessario per poter prendere visione di qualcuno o di qualcosa è nelle mani di coloro che hanno la capacità sociale di raccoglierne, mediarne, regolarne o diffonderne le immagini. Trasformare il Dio della Bibbia in un’entità incorporea è stato forse un modo per consolidare questo straordinario potere del clero.
” L’invocazione
Nell’Antico Testamento i devoti sembrano desiderare più di ogni altra cosa un incontro faccia a faccia con Dio per vederne il volto
Lo scontro
Molto «materiale» è la battaglia che vede contrapporsi Dio e il terribile mostro che nuota nelle acque caotiche dei primordi