UN SILENZIO CHE PESA
Dopo la strage di piazza Fontana, l’assassinio del commissario Luigi Calabresi fu il primo delitto politico della storia repubblicana (a Torino era stato assassinato il 16 aprile 1952 il dirigente della Fiat Erio Codecà, ma la matrice politica dell’omicidio non fu mai provata).
Negli anni successivi al 1972 sarebbero caduti decine di poliziotti, carabinieri, magistrati, dirigenti d’azienda, giornalisti, professori universitari, guardie carcerarie, financo operai che rifiutarono l’omertà. Ma Luigi Calabresi fu la prima vittima di un attacco mirato, contro un obiettivo preciso. Certo, dobbiamo ribadire che c’era già stata la strage fascista nella Banca dell’Agricoltura, e altre ne sarebbero venute. Resta un fatto: l’assassinio di cui oggi ricorre il cinquantesimo anniversario fu la scintilla che riaccese la guerra civile italiana, o almeno quella mimesi, quella riproduzione in piccola scala che furono gli anni che chiamiamo di piombo.
Anche per questo fare piena luce sull’assassinio di Luigi Calabresi è di particolare importanza, per la storia della nostra comunità nazionale.
C’è stata una confessione, quella di Leonardo Marino, l’autista che guidava l’automobile dell’omicida. C’è stata una chiamata in correo. Ci sono stati dieci anni di processi, arrivati — dopo un tormentato percorso — a una sentenza definitiva di condanna per Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani, Adriano Sofri. Esiste quindi una verità giudiziaria. Non possiamo parlare di mistero italiano irrisolto.
Tuttavia sarebbe ipocrita tacere che quella sentenza definitiva di condanna non è mai stata accettata non solo da tre degli imputati, non solo dalla comunità di Lotta continua, ma da larga parte della sinistra italiana. Certo, molti degli ottocento intellettuali che a suo tempo firmarono il manifesto contro il «commissario torturatore» hanno chiesto scusa alla famiglia. Uno di loro, il grande regista Marco Bellocchio, l’ha fatto di persona dieci giorni fa, presentando a Castenedolo il libro della signora Gemma Calabresi Milite, «La crepa e la luce». Ma contro la condanna di Marino, Bompressi, Pietrostefani e Sofri si combatté una battaglia civile: si tornò a raccogliere firme; molti giornali sposarono la linea innocentista; Dario Fo portò in tutta Italia uno spettacolo intitolato «Marino libero! Marino è innocente!». Poi, più nulla. Silenzio. Conversazioni private, come quella tra il primogenito di Luigi Calabresi, Mario, e Giorgio Pietrostefani, di cui la signora Gemma ha detto in un’intervista al Corriere: «Dio è passato anche da lui».
Il 9 maggio scorso Mario Calabresi ha parlato alla Camera. E ha pronunciato queste parole: «Alcune tessere del mosaico ancora mancano. Molti di coloro che hanno ucciso o hanno fiancheggiato sono ancora tra noi; da mezzo secolo si sono rifugiati nel silenzio e nell’omertà. Il coraggio della verità sarebbe per loro un’occasione irripetibile e finale di riscatto. Il gesto che permetterebbe di chiudere una stagione».
Mario Calabresi forse non si riferiva solo all’assassinio di suo padre. Ma nel momento in cui parla degli uomini che «da mezzo secolo», quindi dal 17 maggio 1972, «si sono rifugiati nel silenzio e nell’omertà», si riferisce certo anche all’assassinio di suo padre.
Nessuno, tra i militanti dell’estrema sinistra in cui certamente maturò il delitto, e in particolare tra i militanti di Lotta continua cui la magistratura l’ha attribuito — anche in seguito alla confessione di uno di loro —, ha ritenuto di dover rispondere con una parola, una sola, all’appello di Mario Calabresi.
Qualcuno potrebbe replicare: abbiamo sempre detto che i nostri compagni sono innocenti; cos’altro potremmo aggiungere?
In realtà, Lotta continua non è il monolito che viene considerata. Per fare un solo nome, Erri De Luca non si è mai riconosciuto nella linea dei «trasecolati». «Chiunque di noi potrebbe avere assassinato Calabresi. Chiunque, tranne Marino» ha sempre sostenuto De Luca; offrendo una sorta di scambio, tra la libertà dei compagni e la verità. È possibile che tra gli ex militanti di Lotta continua la linea dei «trasecolati» non sia così condivisa. Sull’uso della violenza dissero in passato parole di verità, ad esempio, Paolo Sorbi e Massimo Negarville. È uscito ora un interessante libro (non sul caso Calabresi ma sulla stagione dei servizi d’ordine) di un altro dirigente torinese di Lc, Fabrizio Salmoni. In generale, però, dopo la stagione della militanza, sembra adesso prevalere un infastidito silenzio. Come a dire: facciamo finta di nulla, l’anniversario passerà.
Forse è comprensibile; certo è deludente. Forse non è omertà; certo è mancanza di coraggio.