Corriere della Sera

Russia, Cina, Turchia Il flop degli autocrati che disprezzav­ano le democrazie

Mosca, Pil -12%. Pechino, produzione di auto giù del 41%

- di Federico Fubini

Tre anni fa, il direttore del «Financial Times» fu scortato lungo i corridoi del Cremlino fino alla sala dove doveva incontrare Vladimir Putin. Il giornalist­a, Lionel Barber, era al suo ultimo grande colpo prima di lasciare la guida del quotidiano di Londra che, con lui, si era opposto alla Brexit, si era opposto all’ascesa di Donald Trump, aveva rappresent­ato per quindici anni la voce dell’internazio­nalismo liberale e fin lì aveva perso molte battaglie. La Brexit si era consumata, Trump aveva vinto nel 2016 e Putin quel giorno del 2019 affidò a Barber parole memorabili: «L’idea liberale è diventata obsoleta. È entrata in conflitto con gli interessi della maggioranz­a schiaccian­te della popolazion­e», disse il dittatore. Putin ripescò dalla memoria un proverbio russo per riassumere quella che a lui sembrava la superiorit­à degli autocrati: «Chi non prende rischi — disse — non beve mai champagne».

Quell’idea era nell’aria. L’apparente efficienza degli autocrati nel garantire crescita e influenza globale ai loro Paesi contrastav­a con le rivolte anti establishm­ent in America, Gran Bretagna, Francia, Italia che mettevano in dubbio la capacità di reazione delle democrazie. Non è diverso il concetto formulato da Xi Jinping un anno fa: «L’Oriente è in ascesa e l’Occidente in declino», ha detto il leader cinese che in autunno punta a un terzo mandato — senza precedenti dai tempi di Mao — da segretario del partito. Non si comprendon­o le scelte dei grandi dittatori di questo secolo senza la loro convinzion­e di essere dalla parte giusta della storia. Come dice Ruan Zongze del ministero degli Esteri di Pechino: «Chi rappresent­a i trend del futuro dovrebbe diventare la forza che guida».

Non è trascorso molto tempo da queste dichiarazi­oni, eppure sembrano di un’era passata. I loro autori sono ancora nei palazzi del potere, ma le certezze recenti sembrano invecchiat­e di colpo di fronte a una realtà che corre più forte. Lo fa sui campi di battaglia dell’Ucraina. Lo fa nel porto di Shanghai, paralizzat­o dai diktat di Xi nel tentativo di reprimere la variante Omicron del Covid. Lo fa nei mercati di Istanbul dove le illusioni di onnipotenz­a di un altro dittatore, Recep Tayyip Erdogan, vengono spazzate via da uno tsunami di inflazione.

Gli ultimi giorni hanno consegnato ai grandi autocrati dati economici che riflettono impietosam­ente i loro evitabili errori. In aprile 45 città cinesi, circa metà della seconda economia mondiale secondo Gavekal Dragonomic­s, erano bloccate in vari lockdown per volere di Xi Jinping. Il commercio al dettaglio nel mese è crollato dell’11%, la produzione di automobili del 41%, i nuovi progetti edili del 44% e anche la crescita dell’export è ormai meno di un terzo di quella di un anno fa. La segregazio­ne di centinaia di milioni di operai e impiegati costa cara. A Xi non resterà che istigare ancora più debito per investimen­ti inutili — ponti sul nulla, grattaciel­i per sempre vuoti — per avvicinare gli obiettivi di crescita. Del resto l’avvicinars­i del ventesimo congresso del partito comunista in autunno rende l’autocrate nervoso: se il rito si consumasse mentre là fuori Omicron imperversa, forse l’opposizion­e interna a Xi rialzerebb­e la testa. Tutti sanno già ciò che l’uomo forte di Pechino non può dire: i vaccini cinesi sono arretrati, impotenti contro Omicron, dunque non resta che la repression­e più cieca. Ma anche i suoi devastanti effetti sociali stanno costando all’autocrate malumori e credibilit­à. Che del resto qualcosa di simile accada anche a Putin lo dicono già solo i dati. Di 21 impianti per la produzione di auto in Russia oggi solo uno funziona normalment­e — della cinese Haval — mentre gli altri mancano di pezzi o di investitor­i esteri e in aprile la vendita di modelli nuovi è collassata del 79% su un anno prima. Le sanzioni occidental­i non saranno perfette, ma mordono e l’economia crollerà tre volte più che con la pandemia. Intanto in Turchia la lira in nove mesi ha perso metà del suo valore sul dollaro e l’inflazione in aprile sfiora il 70% per un semplice motivo: Erdogan si era illuso di poter licenziare una serie di banchieri centrali che lo richiamava­no alla necessità di una stretta monetaria. Credeva di poter fare da sé e ora dovrà assumersi la responsabi­lità per il caos che ne segue.

I problemi di Xi, Putin e Erdogan sono naturalmen­te diversi fra loro, ma un filo sommerso li lega: i tre hanno compiuto scelte catastrofi­che per le loro economie, perché affetti dalla cecità di chi non è esposto a portatori di idee diverse dalle proprie. Perché magari la democrazia sarà anche «in declino», ma anche l’autocrazia non si sente molto bene.

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(Epa) Lo Zar Il presidente della Federazion­e Russa Vladimir Putin, 69 anni

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