BELLA DI NOTTE
Il Giro arriva in Emilia-Romagna Terra di Fellini e Ligabue, cuce le sue (diverse) anime con un innato senso della festa
Il surrealismo in purezza, come un tratto del paesaggio. Con le emozioni che nel racconto collettivo, e a dispetto delle leggi della matematica, diventano iperboli di iperboli. La Romagna è esagerazione, un caleidoscopio che riflette ben più delle luci stroboscopiche della Riviera. Una parentesi di terra e di mare sospesa tra l’Emilia (al di là del fiume Sillaro), la Toscana e le Marche del Nord. Nel Canto XXVII dell’Inferno, Dante ne traccia i confini a Sud da Urbino al Fumaiolo (e non a caso la parlata pesarese è molto più simile a quella dei riccionesi che a quella degli anconetani). Il sommo poeta lo fa attraverso le parole di Guido da Montefeltro, che gli chiede cosa ne è stato della sua terra: «Dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; / ch’io fui d’i monti là intra Orbino / e ‘l giogo di che Tever si diserra».
Aveva ragione Dante? In verità, non si conosce con esattezza millimetrica dove cominci e dove finisca, ma si sa che la Romagna è la Romagna e l’Emilia è l’Emilia. Per dire: Roberto Mercadini, scrittore, erudito, youtuber, attore teatrale e anche autentico interprete dello spirito del luogo (nel suo caso Cesena), spiega che non esiste una parola in dialetto romagnolo per indicare gli emiliani: «Non perché noi ce l’abbiamo con loro. Anzi. La storia della rivalità con i nostri cugini è una stupidaggine. I romagnoli usano un’unica definizione quando si riferiscono a chi viene da fuori, sia eschimese o bolognese. Ed è forestiero, furistìr. La peggiore offesa che un romagnolo possa fare a un altro romagnolo è dargli del furistìr, ma come insulto vale solo tra di noi».
In un simile milieu, c’è stato persino chi è stato così temerario (lo racconta sempre Mercadini: «Cose che solo noi possiamo dire») da mettere in dubbio che Santarcangelo di Romagna, con quel nome, a due passi dalla Rimini di Fellini, sia collocabile a pieno titolo in Romagna. Eppure su questo dubbi non ce ne possono essere. Quindi: la tappa del giro che partirà da Santarcangelo lo farà per certo dalla Romagna. All’insegna di Amarcord, ma anche del fatto che «l’ottimismo è il profumo della vita»: questa è la patria di Tonino Guerra, leggendario poeta e sceneggiatore sul quale si possono scrivere libri interi, ma che divenne ancor più famoso per il tormentone di un noto spot in cui era testimonial.
Sarà il Michele Arcangelo in ferro battuto che vigila sul «campanone» della città a indicare la direzione del vento e, chissà, pure quella del Giro: Savignano sul Rubicone, Cesena, Forlimpopoli, Forlì, Faenza, Castel Bolognese, Imola… Si sfreccia lungo la via Emilia che a Bologna, alma mater come la sua università, città papalina, «tendenzialmente sferica e accomodante» (Romano Prodi), comincia a trasmettere nuove sensazioni. L’aria è cambiata. Restano il dinamismo, i motori e quella voglia di fare e di vivere in pienezza che ne è un tratto distintivo. I portici sono un mantello che ti avvolge.
E la basilica di San Luca una certezza, lassù, che rassicura il pellegrino. «L’ottimismo è ancora il profumo della vita», ma, insomma, non siamo più in Romagna. Si scorge, in una increspatura dell’orizzonte, l’autobahn tondelliana, con il suo corredo di inquietudini: sarà che dobbiamo arrivare a Reggio Emilia e passare per Correggio. Ora la frontiera della via Emilia, che divide i paesi che attraversa, quella infinita distesa di case, capannoni, balere e campi, resta alle spalle del Giro. La carovana non passerà per Modena, «piccola città, bastardo posto» (Guccini), scrigno che contiene la Ghirlandina, forse uno dei più bei campanili al mondo. La lambirà. Uscito da Bologna il serpentone seguirà una curva affondando nella Bassa: San Giovanni in Persiceto, Crevalcore, Camposanto, Cavezzo, San Martino di Carpi, Carpi, Correggio. Si atterra a Reggio Emilia, città che fu rossissima quando il Pci qui era tutto, al termine dell’immersione in una provincia operosa dove «certe notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei» (Ligabue). Una terra di cantanti in odore di blues e di scrittori maledetti, punteggiata di distretti industriali ed ex case del popolo che custodiscono antiche glorie dietro portoni chiusi.
I romagnoli usano un’unica definizione quando si riferiscono a chi viene da fuori, sia eschimese o bolognese. Ed è forestiero, «furistìr». La rivalità con i cugini emiliani è soltanto una stupidaggine