Quante piste false in un’Italia vera Indaga e ricorda l’ex pm Penelope
La parola chiave del nuovo libro di Gianfranco Carofiglio, ovviamente il rancore, che ne è il fulmineo titolo (Rancore, Einaudi Stile libero) affiora solo a pagina 93 nella lucida e senile autocoscienza di una anziana ex moglie tradita da sempre, spietatamente consapevole del disamore di un ex marito ormai morto e che fu incapace di qualsiasi affettività, di ogni condivisione minimamente necessaria per alimentare un matrimonio, una famiglia e i sentimenti che la giustificano. Tre dolorose sillabe, ran-co-re, come lapide sul fallimento di un’intera esistenza, dopo anni trascorsi ad annullare la propria personalità, a raccontarsi il falso e a digerire gli affronti di un seduttore seriale. Però tu, lettrice o lettore, attendi quella parola dalle primissime pagine, perché la percepisci come tema dominante già nei primi dialoghi: è forse il vero pregio della cronaca di un’indagine che, come spesso succede nei libri carofigliani, è solo il pretesto narrativo per un viaggio interiore nelle anime, nei segreti dolori dei personaggi.
Carofiglio si affida per la seconda volta a Penelope Spada (già incontrata in La disciplina di Penelope, del 2021), una sorta di alter ego femminile dell’autore. Sarebbe troppo banale tirare in ballo l’ovvio «Madame Bovary c’est moi!» di Flaubert, ma qui il parallelo è trasparentissimo. Penelope Spada è un ex pubblico ministero che ha dovuto lasciare la magistratura per un imperdonabile errore che lettrici e lettori scopriranno nel libro. Carofiglio, a sua volta, ha abbandonato quello stesso mondo ma per gestire il crescente successo internazionale da romanziere. Comunque sia, i due hanno conservato l’identico istinto (cioè il piacere) per l’investigazione: Carofiglio rivercasione
sandolo nei libri, la sua creatura Penelope diventando investigatrice privata, per di più senza licenza ufficiale. Una caduta, quella di lei, dall’Olimpo del privilegio che deriva dall’appartenenza a una temuta casta, alla polvere di una esistenza arrangiata con piccole indagini, nel retrobottega di un bar trasformato in studio.
Tutta la trama ruota intorno alla morte del professor Vittorio Leonardi, potente barone universitario e primario medico «dal bisturi onnipotente». L’interesse di Carofiglio, con tutta evidenza, è la progressiva scoperta dell’intollerabile aridità di quell’uomo: innamorato solo di sé e del suo successo professionale, pessimo marito e algido padre, collezionista
senza scrupoli di avventure femminili, mentitore. Una vera calamita per il rancore altrui.
La sua morte appare naturale, un infarto. Ma la figlia Marina è convinta del contrario, cioè che qualcuno abbia voluto ucciderlo: la sua sete di verità non deriva dall’amore filiale, anzi, ma da una congrua eredità assai malvolentieri condivisa con una seconda moglie del padre. Per Penelope è un colpo al cuore, Vittorio Leonardi è stato l’inconsapevole (e mai incontrato) protagonista del capitolo più buio della vita professionale dell’investigatrice. La tipica occasione per chiudere un cerchio che le ha cambiato l’esistenza. E con la trama fermiamoci ovviamente qui.
Carofiglio si diverte molto a disseminare piste, che si rivelano false, per la soluzione del caso e a presentare in primo piano possibili protagoniste o protagonisti che si dissolvono poi come semplici comprimari, o addirittura comparse. Emerge persino una vicenda massonica che è, insieme, l’ocper una satira di costume ma anche per una preoccupatissima denuncia: nonostante la P2 c’è ancora chi, in tanti occulti circoli di professionisti, si riunisce per decidere «gli esiti di concorsi universitari, nomine di magistrati in importanti uffici direttivi, gare pubbliche, finanziamenti, addirittura il contenuto di leggi regionali e nazionali». C’è un questore che chiede come e perché sia stata aperta un’indagine che abbia come sfondo un mondo massonico e chiede di essere informato, Penelope si allarma e capisce l’antifona perché «per la legge italiana un questore o un generale dei carabinieri o della guardia di Finanza non sono ufficiali di polizia giudiziaria. Significa che non prendono ordini dal pubblico ministero, ma nemmeno possono conoscere, salva l’esistenza di esigenze specifiche, il contenuto degli atti coperti dal segreto investigativo». Anche questa è l’Italia, ci dice insomma l’ex magistratoromanziere Carofiglio, non dimentichiamocelo mai.
Ovviamente l’autore ci conduce nel porto della soluzione del giallo con mano sicura e collaudato mestiere, anche se tutto questo tracciato può forse far rimpiangere a qualcuno l’acuta energia e la freschezza dell’esordio di Testimone inconsapevole del 2002 (una prosa che folgorò molti) o la felicità dell’invenzione del maresciallo Pietro Fenoglio (Una mutevole verità, 2014). Ma ciò che resta nel profondo di chi arriva alla fine di Rancore è l’affresco corale di tante infelicità, solitudini, bisogni di affetti travestiti da incapacità d’amare che si somigliano e per questo si ricorrono e ritrovano. Il messaggio che ci riguarda tutti, oggettivamente molto bello, è nella battuta di un certo amaro personaggio femminile: «Non si affezioni alla sua infelicità. Ci sembra un contegno eroico, è solo una cosa stupida».
Al centro del caso
Tutto ruota intorno alla morte di un uomo senza scrupoli, primario «dal bisturi onnipotente»