«Sentimenti e modernità nel mio neorealismo rosa»
Pietro Marcello: «L’envol» è stato girato in un villaggio senza tempo
CANNES Al Festival arriva il cinema della «resistenza» di Pietro Marcello, il regista «operaio» nemico dell’individualismo, l’artigiano del cinema che trae linfa dagli archivi, il documentarista autarchico.
La Quinzaine des realisateurs apre con L’envol, adattamento dal romanzo (1923) Le vele scarlatte di Alexandr Grin, il russo pacifista esiliato in Siberia. La sua vita, un paradosso. «Era ritenuto un autore per ragazzi. Morì in Crimea come un miserabile. Fu accusato di essere un cosmopolita: oggi è un complimento».
Una ragazza solitaria (Juliette Jouan) che non ha avuto una vita facile aspetta il sogno sulla riva del fiume, un padre solido (Raphael Thiéry) reduce di guerra, e un avventuriero (Louis Garrel). Un film storico in un villaggio immaginario, «senza tempo anche se siamo alla Prima guerra mondiale, eppure calato nella realtà di oggi, perché il salvatore della ragazza orfana di madre qui è uno scavezzacollo, un giovane fragile: io ho distrutto il principe azzurro». E poi non arriva su un veliero dalle vele scarlatte ma su un piccolo aereo che si rompe. Pietro Marcello si dice contrario «ai film d’epoca con budget enormi, patinati. Meglio costruire un ospedale con quei soldi». Le sale muoiono ma si può ancora fare questo cinema lontano dal mainstream: «Bisogna saper dire dei no. Però questa storia è profondamente popolare, attinge al neorealismo rosa ed è moderno il principe azzurro negativo, l’uomo che non sa stare nella società>. Lui è Louis Garrel, volto tra i più amati del cinema francese, a Cannes con tre film: «E’ una persona intelligente, ha capito che quello era l’unico modo di rendere il suo personaggio, e che l’anima del film è femminile». La ragazza è al suo primo film, «scelta tra mille altre, doveva saper cantare e fare musica, e avere lo stesso carattere robusto di suo padre».
Esiste uno stile Marcello, lo spiega bene il suo attore Thiéry: «Coglie l’istante in cui ci troviamo, è libero, come se filmasse persone reali e non personaggi immaginari». Il regista casertano insegue l’imprevedibilità dei documentari e pensa al filosofo Guy Debord che nel 1975 teorizzò: «Il cinema è sociologia, didattica, Storia, morale. Io mi ritengo un archivista».
Con Martin Eden, già sul tema del viaggio, ebbe la visibilità della gara a Venezia, La bocca del lupo fu «un urlo di inconsapevolezza».
E questo film? «E’ il primo che giro in un paese che non è il mio, la Francia, dove ho imparato la lingua strada facendo, è un percorso nuovo per me. Sarà il mio karma, non mi sono mai ritrovato in una comfort zone. Al rischio ci si abitua, essendo anche produttore so difendermi. Non ho una missione precisa su un determinato cinema».
Trova rifugio nella citazione colta: «Renoir diceva che il cinema si fa tra amici. Ma è anche profondamente cialtronesco. Settima arte di che? Attinge alle altre discipline ed è questa la forza che permette di varcare l’immaginario». Si considera un sopravvissuto? «Mi ricordo Salvemini: fai quello che devi, accada quello che può. Spesso penso di potermi un giorno dedicarmi ad altro, di insegnare, di fare qualcosa di più utile».