LE LEZIONI ETERNE SULLA GUERRA DEI PERSIANI DI ESCHILO
Nella tragedia si racconta il dolore di un popolo dal punto di vista dello sconfitto a suggerire l’idea che l’altro, il nemico, va protetto dalla tentazione di deriderlo e umiliarlo
ASusa, capitale dell’antico regno persiano, un messaggero e la regina Atossa, madre del re Serse, sono uno di fronte all’altra. Increduli. L’uomo, che ha assistito con i suoi occhi all’atroce disfatta dell’armata di Serse nella battaglia di Salamina, ne racconta tutto l’orrore. Nella notte un emissario dei Greci aveva fornito al re la notizia falsa che la flotta greca stava per ritirarsi. Serse non capisce la trappola. Ordina l’attacco ma dopo una notte di preparativi, davanti agli occhi sbigottiti dei Persiani appare la flotta greca pronta a combattere. La battaglia fu una strage per il popolo di Serse, il mare non si vedeva più, era pieno di rottami e di strage umana.
C’è qualcosa di tristemente eterno in questa scena dei Persiani di Eschilo, la tragedia greca più antica che sia giunta sino a noi. Eschilo la mette in scena nel 472 a.C. pochi anni dopo la battaglia di Salamina (del 480 a.C.). Lui stesso vi partecipò così come il poeta combatté a Maratona dieci anni prima.
Insomma la prima tragedia greca che ci sia giunta parla agli spettatori del teatro di Atene di un evento pressoché di storia contemporanea (non accadrà mai più, l’oggetto delle tragedie sarà poi sempre il mito); una tragedia pensata da un uomo che in quella guerra ha combattuto una battaglia che costituiva e costituirà per secoli una pagina indelebile dell’orgoglio greco di aver bloccato i Persiani che tanto avevano attentato alla loro libertà. È naturale che i Greci celebrassero il loro trionfo sul barbaro, sull’altro.
Ma quello che non smette di stupire studentesse e studenti di ogni tempo (e chiunque di noi abbia la curiosità di leggere i Persiani) è che Eschilo racconta la vittoria del suo popolo attraverso gli occhi dei Persiani. Gli occhi dell’altro. Come se il poeta non volesse piegarsi all’idea di fare del suo testo un semplice manifesto della grandezza di Atene.
Come se scegliendo di raccontarci il dolore di un popolo dal punto di vista dello sconfitto ci volesse suggerire l’idea che l’altro, il nemico, va protetto dalla tentazione di deriderlo e umiliarlo.
Dalla cultura greca ci possono separare secoli e abitudini. Ma quello messo in scena da Eschilo è un esercizio di umanità da fare nostro.
Su quella scena piangono Atossa e tutti gli anziani restati nella capitale. I giovani sono partiti e moltissimi di loro sono morti in guerra. Piangono come piangerà Scipione l’Emiliano, nel racconto dello storico Polibio, davanti a quel che restava di Cartagine, l’antica e acerrima rivale di Roma, rasa al suolo (era il 146 a.C.). Scipione pianse per i nemici, un tempo grandissimi.
Ovunque la si guardi, la tragedia di Eschilo continua a parlarci. C’è Temistocle, l’eroe sottinteso, il vincitore di Salamina, l’uomo che con la sua intelligenza strategica salvò nell’immaginario greco collettivo la libertà dell’Occidente.
Eppure Temistocle negli anni seguenti fu ostracizzato dai suoi stessi concittadini: su di lui era caduto il sospetto che stesse accumulando troppo potere. E fu così che l’eroe greco finì i suoi giorni in Persia, divenne governatore, ebbe figli da diverse mogli e una di loro la chiamò Asia. Temistocle,
La cultura greca
Ci è lontana per secoli e abitudini. Ma quello di Eschilo è un esercizio di umanità da fare nostro
il baluardo della libertà greca, ebbe tempo e modo di far parte della prospettiva del barbaro che aveva sconfitto. Una bella lezione sulla complessità della vita.
Poi c’è il racconto della sconfitta. Gli Ateniesi ascoltano il dolore del racconto della battaglia di Salamina dalle parole di un messaggero, non lo vedono rappresentato sulla scena attraverso immagini cruente di facile presa. Interessante convenzione del teatro greco che mette in moto l’immaginazione e l’immedesimazione. Le scene di sangue, a cui oggi i nostri ragazzi sono tanto abituati, tendono a renderli anestetizzati davanti al dolore altrui, come incapaci di differenziare tra la sofferenza reale e quella costruita nei social. Il teatro, come i libri e i bei film visti al cinema, aiutano invece a farli immedesimare nell’altro, a vivificarlo, a dargli un volto. Un volto da vivere come una parte di noi.
Sono bellissime le parole di Emmanuel Lévinas (1906-1995), il filosofo dell’altro, secondo cui è nel volto dell’Altro che scopriamo che il mondo è nostro nella misura in cui lo posso condividere con l’altro (Totalità e infinito, 1961). Il senso del volto dell’altro è certo un antidoto, questa volta contro ogni forma di odio.
Una capacità, antica ed eterna, di guardare l’altro che dobbiamo assorbire come fosse un elisir di futuro. Del resto, la parola altro viene dalla parola latina alter, l’altro tra due persone, tra due cose, tra due parti di noi. L’alter ego. Un modo preciso di intendere l’altro.
Il latino per indicare il concetto possiede anche la parola alius, che però significa l’altro tra tanti. A ben guardare alter è anche alla radice della parola alterità, ciò che è diverso, a volte ci spaventa ma che ci costringe a uscire da noi stessi per riconoscere e accettare. Per farsi prossimi, un’altra bella parola latina che significa vicinanza.