Quella bellezza della Natura troppo elegante che un po’ soffoca
Tocca all’Italia inaugurare questa edizione di Cannes, anche se i registi sono belgi (Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, in coppia anche nella vita) e la produzione è divisa con Belgio e Francia. Ma tutto il resto di Le otto montagne è italianissimo: il romanzo di partenza (di Paolo Cognetti), il cast e la lingua. Fedele all’opera letteraria, racconta la passione di Pietro (Luca Marinelli) per le cime e la sua amicizia con Bruno (Alessandro Borghi), il primo cittadino il secondo valligiano, conosciutisi da ragazzi quando uno saliva per le vacanze coi genitori e poi ritrovatisi da adulti. A unirli più che l’amore per i monti è quello per la vita che impongono, fatta di ritmi scanditi dal silenzio, di rispetto per una Natura a volte ostile, di un sottomesso fatalismo. Ed è proprio questa presenza con i toni inquietanti del sublime che i due registi, autori anche della sceneggiatura, cercano di restituire con un ritmo che forse si concede qualche pausa di troppo. Quando sono in scena gli attori (tutti bravissimi, con una citazione particolare per Borghi) il film sa comunicare la fascinazione, a volte troppo distillata e pura per non dare anche un senso di soffocamento, che trasmettono quei luoghi. Ma quando la fotografia di Ruben Impens si fa tentare da una bellezza troppo elegante, sembra che il film fatichi a procedere. Un po’ la sensazione che si prova anche di fronte alle 2 ore e 17 minuti di La moglie di Ciajkovskij di Kirill Serebrennikov. La sessualità del compositore russo qui è raccontata dalla parte della moglie, talmente innamorata da non capire che il suo matrimonio era una farsa per coprire l’omosessualità di lui. Ma quello che all’inizio sembra il frutto di un’educazione distorta e perbenista diventa un’ossessione che prende la mano alla regia e finisce in un inutile compiacimento di umiliazioni.