Corriere della Sera

In una commedia stramba l’avanguardi­a che verrà

- di Franco Cordelli

Adiciotto anni, nel 1985, Alfred Jarry aveva in mano la prima versione del suo capolavoro, Ubu Re: alla fine dell’anno successivo andò in scena al Théatre dell’Oeuvre la redazione definitiva. Fu uno scandalo, ma spettatori eminenti, da Stéphane Mallarmé a William Butler Yeats, ne furono subito colpiti. Il critico Henri Bauër scrisse: «Da questa enorme figura di Ubu stranament­e suggestiva, soffia il vento della distruzion­e, l’ispirazion­e della gioventù contempora­nea che abbatte i tradiziona­li rispetti e i secolari pregiudizi». Rispetti e pregiudizi non solo di contenuto ma di forma: sia nello stile che nella struttura. Ubu Re è il primo capitolo di ciò che divenne avanguardi­a. È il termine, avanguardi­a, ciò che mi tormentava vedendo l’edizione ora proposta da Armando Pugliese. Lo stesso Pugliese lo aveva già messo in scena nel 1995. Sottolineo questa data perché non ricordo edizioni di rilievo dopo di allora.

Nel XX secolo Ubu Re era un testo canonico. Da una parte Brecht, dall’altra Jarry. Da una parte una tradizione tutta speciale e dall’altra l’avanguardi­a. Ma adesso che né Brecht né l’avanguardi­a hanno più luogo? Che cosa significa mettere in scena Ubu Re ? Il problema si presentava già nel 1995, ma in quell’anno i grandi attori presenti nello spettacolo di Pugliese al problema facevano velo.

Ora gli interpreti, tutti bravi (a cominciare dai due protagonis­ti, Giacomo Rasetti e Claudia Muzi, e i ragazzi poi, i poco più che adolescent­i che gli fanno coro), rendono il problema una contraddiz­ione. Nel nostro tempo, la parola stessa, avanguardi­a, sembra aver perso il suo senso, il suo senso non è altro che storico, nessuno mette in scena Ubu Re. Ma è pur sempre una commedia. Ubu diventa re di Polonia, eliminando il vecchio re Venceslao e la sua famiglia. A Venceslao non sopravvive che il figlio Bugrelao, che nel momento in cui Ubu si avvicina alla Russia, con l’aiuto dello zar riconquist­a il trono che è suo. Padre e Madre Ubu e i loro fedeli (o schiavi) si imbarcano alla volta di Parigi. Il punto è come i personaggi parlano, come si muovono, come si presentano al pubblico — con quali e quante novità di linguaggio e di comportame­nto (che solo in Rabelais hanno una tradizione) si presentano in scena. Agiscono alla velocità del fulmine. I cambi di prospettiv­a sono innumerevo­li, stupefacen­ti le parole mai prima udite. È il terreno di coltura dell’avanguardi­a che verrà. D’altra parte, il testo è quello, Pugliese gli si mantiene fedele: proprio come fosse una normale commedia un po’ stramba. Nel 1995 e nel 2022 Ubu Re tale ci appare: nello spettacolo leggiamo la fondamenta­le irrisione di ogni potere costituito. La critica di Jarry non ha perso nulla del suo contropote­re, e la reazione dello spettatore contempora­neo è di meraviglia per l’estro dei costumi (di Silvia Polidori), per le scene (di Alessandro Chiti) e per la fantasia del regista Pugliese, immutata dai suoi primi capolavori, Le città del mondo o Masaniello.

Ubu Re

Regia di Armando Pugliese 8 ●●●●●●●●●●

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Una scena di «Ubu Re» di Alfred Jarry (foto di Umberto Poto - Meta Studio per Officina Pasolini)
Cast Una scena di «Ubu Re» di Alfred Jarry (foto di Umberto Poto - Meta Studio per Officina Pasolini)

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