I TIMORI AMERICANI
L’alta inflazione, a cui contribuisce il costo dell’energia, intacca il potere d’acquisto delle famiglie e i conti delle imprese. La caduta di Wall Street non rassicura
Davvero l’America ci guadagna in questo conflitto? È una teoria cara ai putiniani d’Italia. La presentano come una certezza: gli Stati Uniti starebbero lucrando vantaggi dalla guerra, ragion per cui hanno interesse a farla durare il più a lungo possibile. Il fatto che gli indici delle Borse Usa stiano precipitando da quando è iniziata l’aggressione russa all’Ucraina dovrebbe insinuare il dubbio. Se davvero questa guerra fosse un affare per l’economia americana, la notizia non sarebbe sfuggita agli investitori. Proprio quelli che hanno il polso del mercato americano, sono in preda al pessimismo.
L’unico appiglio concreto per la teoria di cui sopra sono le vendite di gas e di armi. Per questi due settori è utile un confronto con la realtà. L’America è una superpotenza energetica, da anni è autosufficiente ed esporta vari tipi di idrocarburi. L’industria del gas americana non aveva bisogno della guerra in Ucraina. L’anno scorso stava già esportando ai massimi, soprattutto verso Cina e Giappone. Ora dirotta una parte di quelle vendite verso l’Europa, non in misura enorme perché il Vecchio Continente ha pochi rigassificatori per trasformare il gas liquido trasportato dalle navi cisterna.
Inoltre l’industria gasifera non aumenta più di tanto la sua produzione, dato che Joe Biden sotto la pressione degli ambientalisti è restìo a concedere nuovi permessi di estrazione. I profitti per l’industria del gas e del petrolio sono abbondanti senza dubbio. Ma l’America non è un petro-Stato come la Russia, non ha un’economia basata prevalentemente sulla vendita di energia. Il peso di questo settore è limitato, si è rimpicciolito rispetto ai tempi in cui George W. Bush lanciò la guerra in Iraq, e continua a decrescere. Dato emblematico: la più grande delle compagnie petrolifere americane, Exxon Mobil, è stata cancellata dall’indice di Borsa Dow Jones nel 2020 perché la sua capitalizzazione è troppo piccola. È un nanerottolo rispetto ai poteri forti del capitalismo Usa, quasi tutti nel settore Big Tech, tutti consumatori di energia, non produttori. Perfino la finanza si decarbonizza, banche e fondi d’investimento disinvestono dall’energia fossile e investono nelle rinnovabili. Il rialzo del prezzo del gas beneficia i bilanci di una porzione minuscola dell’economia americana mentre danneggia tutto il resto, imprese e consumatori. L’inflazione penalizza anche la popolarità di Biden.
In quanto alle armi che purtroppo si vendono in ogni guerra, non sono solo made in Usa visto che tra i massimi produttori sul mercato globale figurano Russia, Cina, Francia, Germania, Italia e altri. Per la parte americana, ieri ha fatto notizia l’approvazione di un pacchetto di aiuti per l’Ucraina da parte del Congresso di Washington. Il valore è di 40 miliardi di dollari, e con questi sale a 54 miliardi il totale versato dagli Stati Uniti all’Ucraina dall’inizio del conflitto. Quasi metà sono aiuti economici, il resto armi. Per avere un senso delle proporzioni, può essere utile paragonare la «legge proUcraina» alle altre manovre di spesa recenti.
Per esempio i 5.000 miliardi di aiuti alle famiglie e alle imprese americane per la pandemia. Oppure i 2.000 miliardi di investimenti in infrastrutture varati da Biden. Al confronto la spesa militare per l’Ucraina è un’inezia che non lascia traccia nell’economia più ricca del mondo.
Quest’ultima non scoppia di salute «grazie alla guerra», anzi. L’alta inflazione, a cui contribuisce il costo dell’energia in rialzo anche sul mercato domestico, intacca il potere d’acquisto delle famiglie e i conti delle imprese. Il dollaro forte (moneta rifugio nelle crisi) penalizza le esportazioni. I timori di recessione crescono. La caduta di Wall Street conferma che l’America stava meglio prima di questa guerra e farebbe volentieri a meno delle sue ripercussioni.
Altra cosa è lo scenario geopolitico di lungo periodo, il fatto che gli Stati Uniti incassano — forse, Ungheria, Turchia e Italia permettendo — una maggiore coesione dell’Occidente. Qui si entra però in una sfera diversa, e dove comunque il guadagno americano è solo la conseguenza di un errore strategico di Putin.
Meno di un anno fa, la ritirata americana da Kabul — avvenuta in circostanze così drammatiche da far parlare di una débâcle — indicava al mondo intero la dottrina Biden: quest’America non ha i mezzi per fare il gendarme del mondo, deve concentrarsi sull’unica sfida che conta (con la Cina), disimpegnarsi da altre responsabilità. L’aggressione russa all’Ucraina ha creato un’opportunità, coerente con quell’obiettivo: rinsaldare la Nato, al tempo stesso ottenere finalmente che gli europei sostengano con più risorse i costi della propria sicurezza. Se Putin è riuscito perfino a terrorizzare finlandesi e svedesi spingendoli fuori dalla neutralità, il beneficio geopolitico per l’America in termini di allargamento di alleanze lo ha generato lui.
Si tratta di un guadagno che presenta rischi e incognite. Biden deve stare attento a non farsi risucchiare dal suo establishment globalista in un ruolo «antico» — da prima guerra fredda — che lo sovraesponga in Europa. Rimane valida la dottrina che vede la Cina come l’unica rivale strategica nel lungo termine, e infatti Biden sta visitando Giappone e Corea del Sud per ribadire l’attenzione all’Indo-Pacifico.
Un’altra incognita nel lungo termine riguarda la solidità dell’impegno americano nella Nato e l’attenzione della Casa Bianca ai problemi dell’Europa. La vasta maggioranza bipartisan che ha approvato al Congresso di Washington gli aiuti per l’Ucraina è un segnale confortante, in un periodo in cui democratici e repubblicani litigano su tutto. Però un futuro presidente repubblicano potrebbe essere meno atlantista; costringerebbe il pilastro europeo della Nato a sobbarcarsi oneri di difesa maggiori. Per chi invoca la nascita di una difesa europea autonoma vale un proverbio qui assai popolare: attenti a quel che auspicate, il vostro desiderio potrebbe realizzarsi.