Un Paese fuori controllo dopo la resa europea nella lotta ai terroristi Le mire di Russia e Cina
Il ritiro delle truppe francesi e i nuovi scenari
Il recente fallimento della presenza militare europea in Mali è passato quasi inosservato a causa dell’imporsi alle cronache della crisi ucraina. Ed è adesso il nuovo rapimento di cittadini occidentali a ricordarci quanto invece la situazione in Mali sia gravemente fuori controllo e vada ad intaccare interessi ed equilibri che coinvolgono anche l’Italia da molto vicino. La nuova presenza, inoltre, di oltre un migliaio di mercenari russi della Wagner — la compagnia che a parole si dice di «contractor privati», ma in realtà lavora in stretto contatto, se non per ordine diretto, del governo di Mosca — contribuisce a trasformare quel fallimento in un’autentica sconfitta, che mette a nudo le debolezze del sistema militare europeo e la necessità di porvi rapidamente rimedio.
La vicenda parte da lontano e investe l’intera regione del Sahel. Si tratta della fascia dell’Africa subsahariana che va dall’Atlantico al Mar Rosso: una zona tragicamente vittima della siccità generata dai cambiamenti climatici accompagnata dalla crescita di movimenti islamici radicali legati a Isis e a Boko Haram, che trovano radici e alimento nell’impoverimento di decine di milioni di africani, i quali vanno tra l’altro ad ingrossare le masse di migranti decise ad attraversare il Mediterraneo. La destabilizzazione del Mali viene accelerata dalla defenestrazione di Muammar Gheddafi nell’ottobre 2011. È allora che la già grave guerra civile interna viene investita dall’arrivo degli elementi jihadisti. Nei piani di Isis cresce la tentazione di allargare il Califfato ai Paesi destabilizzati.
L’intervento voluto da Parigi con la missione Barkhane, che tra il 2013 e 2014 porta in Mali sino a 5.000 soldati, sembra destinato a fermare l’espansione subsahariana di Isis. Ma è solo una breve parentesi. Il pugno di ferro utilizzato dai parà francesi causa vittime «collaterali» tra la popolazione e fa lievitare il malcontento.
I soldati non vengono più visti come liberatori, bensì al pari di nuovi occupanti, come del resto dal 2017 iniziano a osservare con insistenza gli stessi media francesi, che sempre più parlano di «afghanizzazione» della questione Mali. La rabbia s’innesta sugli antichi dissapori figli del passato coloniale. Non è mai facile per un Paese europeo intervenire militarmente in una ex colonia, come sanno bene anche i dirigenti britannici e gli stessi italiani chiamati a trattare con la Libia post 1945.
Le conseguenze sono cronache degli ultimi mesi. Il 17 febbraio la Francia, assieme ai suoi alleati europei (inclusa l’Italia) e il Canada annunciano il ritiro delle truppe dell’operazione Barkhane e della Task Force Takuba. La notizia era nell’aria da molto tempo, adesso arriva con una dichiarazione congiunta rilasciata al termine del summit G5Sahel con Burkina Faso, Mali, Ciad, Mauritania e Niger, tutti Paesi questi i cui governi avevano scelto di inviare soldati per cooperare con quelli occidentali.
La mossa è di resa totale. «A causa delle molteplici ostruzioni delle autorità transitorie del Mali… non sussistono più le condizioni politiche, operative e legali per continuare l’impegno militare contro il terrorismo», si legge. Il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, accetta subito che una parte dei contingenti stranieri si riposizioni nel suo Paese.
Ma è allora che Pechino e Mosca entrano a gamba tesa. La Cina aumenta gli investimenti economici. La presenza russa è invece sostanzialmente militare. Tra gli episodi più
brutali commessi dai contractor della Wagner è l’assassinio in marzo di un numero compreso tra le 250-280 persone nel villaggio di Moura controllato dai jihadisti. La loro attività non cessa del resto neppure in Libia, dove continuano a sostenere le forze della Cirenaica legate a Khalifa Haftar. E questo per l’Italia in particolare resta un problema ancora più grave.