IL BRODO DI COLTURA DELLE FAKE NEWS
Fare appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto; usare formule stereotipate ripetute all’infinito; scatenare attacchi continui agli oppositori, etichettati con epiteti riconoscibili e slogan che suscitino le reazioni viscerali delle masse.
Sembrerebbero le regole di ingaggio di uno dei tanti talk show che ogni sera diffondono il virus dell’infodemia in un qualsiasi canale delle nostre tv generaliste. Ma non è così. Queste regole sono contenute e teorizzate nel Mein Kampf di Hitler, e ad esse si ispirava Goebbels nelle sue devastanti strategie di propaganda.
Io non so quanti tra i conduttori che negli ultimi anni hanno inondato l’etere e la rete di programmi che fanno «appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto» e «suscitano le reazioni viscerali delle masse» siano consapevoli di essere epigoni delle tecniche di propaganda del Terzo Reich. Che non erano poi molto dissimili da quelle teorizzate e praticate da Lenin. Certo è che nel nostro sistema comunicativo, in quello televisivo soprattutto, c’è un problema: forse non ancora una vocazione al totalitarismo ma certo una pratica — poco importa quanto consapevole — che punta al controllo e alla manipolazione dell’opinione pubblica e favorisce la diffusione delle fake news.
Certo: quelle che oggi chiamiamo fake news sono un fenomeno vecchio come il mondo. E da che mondo è mondo sono state armi potentissime nei conflitti bellici. Sono servite a combattere e a vincere guerre più che a manipolare l’opinione pubblica.
La più grande battaglia dell’antichità, quella che ha generato poemi, miti e leggende, la guerra di Troia, è stata vinta grazie a una fake news. L’ha vinta Ulisse, non l’ha vinta Achille. L’ha vinta con quella raffinatissima fake news, con quell’inganno comunicativo che è stato il cavallo di Troia, spacciando un’arma di distruzione di massa per un dono agli dei.
Cos’è cambiato da allora a oggi? Due cose. La prima: le fake news non sono più rivolte a ingannare il «nemico» ma a influenzare e a orientare l’opinione pubblica. La seconda: si inseriscono in un contesto sempre più marcatamente segnato dalla misinformazione, cioè da quel contesto comunicativo per cui l’utente finale è messo nella condizione di non poter mai verificare l’attendibilità delle fonti e la veridicità delle informazioni che gli vengono trasmesse.
Le fake news attecchiscono perché la misinformazione fornisce loro il brodo di coltura. Perché siamo tutti responsabili nell’aver consentito di proliferare a un sistema informativo che troppo spesso pone ogni informazione sullo stesso piano, che non verifica le fonti, che sforna informazioni che vengono puntualmente smentite per poi essere ribadite e quindi di nuovo smentite e poi riaffermate e di nuovo smentite finché il tutto precipita nell’oblio, lasciando il cittadino nel disorientamento, nel disagio, nella diffidenza.
Totalitarismo? Forse non quello teorizzato da George Orwell in 1984, ma qualcosa di simile a quello immaginato da Huxley in Il mondo nuovo, questo forse sì.
Come ha scritto Neil Postman in un saggio lucidamente profetico come Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (1985), «Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato dell’informazione, Huxley temeva coloro che ce ne avrebbero data tanta da ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la verità ci sarebbe stata nascosta, Huxley temeva che la verità venisse affogata in un mare di irrilevanza». La profezia distopica di Huxley mi sembra non sia lontana dall’avverarsi: viviamo nell’età della distrazione e dell’indifferenza, affogati nel banale chiacchiericcio e nella hybris dell’insulto, immersi in una mediasfera dominata dall’indecidibilità. Uno vale uno. Chiunque può dire qualsiasi cosa senza timore di essere smentito, anzi, più le spara grosse, più le dice inattendibili, più è probabile che i talk show gli facciano eco e gli diano spazio. Generando la misinformazione in cui attecchiscono le fake news.
Per troppo tempo abbiamo assistito silenti se non complici alla portaa-portizzazione della comunicazione. Abbiamo lasciato credere che comunicare sia urlare, insultare, banalizzare. Abbiamo lasciato la comunicazione televisiva in mano ai professionisti da talk show, agli acrobati degli anacoluti, ai prestigiatori dell’insulto, ai campioni della rissa verbale.
Ora è davvero tempo di porsi il problema dell’ecologia della comunicazione. Di battersi per riaffermare alcuni principi basilari. Impegnandosi ad esempio a scrivere in rete solo cose che si ha il coraggio di dire anche di persona. Valorizzando il valore dell’ascolto e del silenzio. Ricordando che gli insulti non sono argomenti, anche se sono insulti che sostengono le nostre tesi.
Ma si tratta soprattutto di rilanciare la lotta per la democrazia della conoscenza. Per la parità di accesso alle informazioni. Per la formazione di un’opinione pubblica dotata degli strumenti culturali necessari per distinguere una notizia falsa da una proveniente da fonte attendibile e accertata. In un Paese che ha ormai il 30% della popolazione adulta analfabeta o semianalfabeta, la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta. In assenza di questa, in assenza di una vera democrazia culturale, anche la democrazia politica rischia di diventare una pia illusione. O, se preferite, una fake new.
Cultura e formazione dell’opinione pubblica: la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta