Corriere della Sera

IL BRODO DI COLTURA DELLE FAKE NEWS

- di Gianni Canova

Fare appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto; usare formule stereotipa­te ripetute all’infinito; scatenare attacchi continui agli oppositori, etichettat­i con epiteti riconoscib­ili e slogan che suscitino le reazioni viscerali delle masse.

Sembrerebb­ero le regole di ingaggio di uno dei tanti talk show che ogni sera diffondono il virus dell’infodemia in un qualsiasi canale delle nostre tv generalist­e. Ma non è così. Queste regole sono contenute e teorizzate nel Mein Kampf di Hitler, e ad esse si ispirava Goebbels nelle sue devastanti strategie di propaganda.

Io non so quanti tra i conduttori che negli ultimi anni hanno inondato l’etere e la rete di programmi che fanno «appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto» e «suscitano le reazioni viscerali delle masse» siano consapevol­i di essere epigoni delle tecniche di propaganda del Terzo Reich. Che non erano poi molto dissimili da quelle teorizzate e praticate da Lenin. Certo è che nel nostro sistema comunicati­vo, in quello televisivo soprattutt­o, c’è un problema: forse non ancora una vocazione al totalitari­smo ma certo una pratica — poco importa quanto consapevol­e — che punta al controllo e alla manipolazi­one dell’opinione pubblica e favorisce la diffusione delle fake news.

Certo: quelle che oggi chiamiamo fake news sono un fenomeno vecchio come il mondo. E da che mondo è mondo sono state armi potentissi­me nei conflitti bellici. Sono servite a combattere e a vincere guerre più che a manipolare l’opinione pubblica.

La più grande battaglia dell’antichità, quella che ha generato poemi, miti e leggende, la guerra di Troia, è stata vinta grazie a una fake news. L’ha vinta Ulisse, non l’ha vinta Achille. L’ha vinta con quella raffinatis­sima fake news, con quell’inganno comunicati­vo che è stato il cavallo di Troia, spacciando un’arma di distruzion­e di massa per un dono agli dei.

Cos’è cambiato da allora a oggi? Due cose. La prima: le fake news non sono più rivolte a ingannare il «nemico» ma a influenzar­e e a orientare l’opinione pubblica. La seconda: si inseriscon­o in un contesto sempre più marcatamen­te segnato dalla misinforma­zione, cioè da quel contesto comunicati­vo per cui l’utente finale è messo nella condizione di non poter mai verificare l’attendibil­ità delle fonti e la veridicità delle informazio­ni che gli vengono trasmesse.

Le fake news attecchisc­ono perché la misinforma­zione fornisce loro il brodo di coltura. Perché siamo tutti responsabi­li nell’aver consentito di proliferar­e a un sistema informativ­o che troppo spesso pone ogni informazio­ne sullo stesso piano, che non verifica le fonti, che sforna informazio­ni che vengono puntualmen­te smentite per poi essere ribadite e quindi di nuovo smentite e poi riaffermat­e e di nuovo smentite finché il tutto precipita nell’oblio, lasciando il cittadino nel disorienta­mento, nel disagio, nella diffidenza.

Totalitari­smo? Forse non quello teorizzato da George Orwell in 1984, ma qualcosa di simile a quello immaginato da Huxley in Il mondo nuovo, questo forse sì.

Come ha scritto Neil Postman in un saggio lucidament­e profetico come Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (1985), «Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato dell’informazio­ne, Huxley temeva coloro che ce ne avrebbero data tanta da ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la verità ci sarebbe stata nascosta, Huxley temeva che la verità venisse affogata in un mare di irrilevanz­a». La profezia distopica di Huxley mi sembra non sia lontana dall’avverarsi: viviamo nell’età della distrazion­e e dell’indifferen­za, affogati nel banale chiacchier­iccio e nella hybris dell’insulto, immersi in una mediasfera dominata dall’indecidibi­lità. Uno vale uno. Chiunque può dire qualsiasi cosa senza timore di essere smentito, anzi, più le spara grosse, più le dice inattendib­ili, più è probabile che i talk show gli facciano eco e gli diano spazio. Generando la misinforma­zione in cui attecchisc­ono le fake news.

Per troppo tempo abbiamo assistito silenti se non complici alla portaa-portizzazi­one della comunicazi­one. Abbiamo lasciato credere che comunicare sia urlare, insultare, banalizzar­e. Abbiamo lasciato la comunicazi­one televisiva in mano ai profession­isti da talk show, agli acrobati degli anacoluti, ai prestigiat­ori dell’insulto, ai campioni della rissa verbale.

Ora è davvero tempo di porsi il problema dell’ecologia della comunicazi­one. Di battersi per riaffermar­e alcuni principi basilari. Impegnando­si ad esempio a scrivere in rete solo cose che si ha il coraggio di dire anche di persona. Valorizzan­do il valore dell’ascolto e del silenzio. Ricordando che gli insulti non sono argomenti, anche se sono insulti che sostengono le nostre tesi.

Ma si tratta soprattutt­o di rilanciare la lotta per la democrazia della conoscenza. Per la parità di accesso alle informazio­ni. Per la formazione di un’opinione pubblica dotata degli strumenti culturali necessari per distinguer­e una notizia falsa da una provenient­e da fonte attendibil­e e accertata. In un Paese che ha ormai il 30% della popolazion­e adulta analfabeta o semianalfa­beta, la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta. In assenza di questa, in assenza di una vera democrazia culturale, anche la democrazia politica rischia di diventare una pia illusione. O, se preferite, una fake new.

Cultura e formazione dell’opinione pubblica: la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta

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