La solitudine novecentesca di chi rifiutò ogni etichetta
La Fondazione: «La coerenza è stata la sua vera eredità»
Carlo Mattioli? Un pittore dal carisma solitario, che per vendetta faceva quadri bellissimi. Ritorsione inconsapevole nei confronti di un sistema che «aveva deciso che lui non doveva essere noto, e doveva restare fuori dalla luce». Parole di Giorgio Soavi, dandy delle lettere, amico personale di Balthus e Alberto Giacometti, oltre che genero di Adriano Olivetti. Nessuno come Soavi ha affondato la penna con lucidità così folgorante nelle intimità del Mattioli uomo e artista.
Un artista confinato a lungo nell’ombra, perché all’epoca dei pittori militanti lui semplicemente non si schierava; «credeva con forza che politica e ideologia dovessero stare fuori dall’arte», conferma la nipote Anna Zaniboni Mattioli, vestale della memoria e vicepresidente della Fondazione che dal 2018 si è fatta custode di quella sua pittura misteriosa, silenziosa, insondabile, anello di congiunzione tra ciò che l’occhio vede e l’essenza di quanto il cuore intercetta. Pittura epifanica, fuori dal flusso della storia, capace — scriveva Roberto Tassi — di toccare «la poesia spoglia delle cose».
Con le sue spiagge, le ginestre, i campi di papaveri e di lavanda, i boschi verdi, i cieli, gli emozionanti notturni Mattioli ha riletto il mondo, la natura. Con i nudi della moglie e i ritratti di amici e colleghi (Giorgio de Chirico, Carlo Carrà, Attilio Bertolucci) ha stenografato la stessa natura umana. Quest’uomo alto, asciutto e occhialuto, «un albero che si muove e dipinge alla velocità del vento» (Soavi), era tutt’uno con il grande studio al piano terreno del seicentesco Palazzo Smeraldi, nel cuore di Parma, a due passi dal duomo e dal battistero dell’Antelami. Microcosmo in cui ha lavorato fino alla fine e che la morte ha reso solenne.
In queste stanze, visitabili su richiesta, filtro tra lui e la vita esterna, tutto è rimasto come l’ultimo giorno: il mozzicone di sigaretta, i tubetti di colore ancora aperti, i fogli appena abbozzati, la giacca da lavoro piena di macchie sullo schienale della sedia, una tela incompiuta sul cavalletto. «Qui sono passati tutti, scrittori, poeti, intellettuali; non ha fatto in tempo il principe Carlo, il nonno era già in ospedale, malato; credo che possieda un paio di suoi acquerelli».
Piaceva — e piace — ai buongustai della pittura questo artista fuori catalogo, eccentrico, orgoglioso e indipendente, irriducibilmente estraneo a gruppi e correnti. Artista di provincia, come scelse di essere, per tutelare la propria autonomia di creazione e pensiero.
«Tra i collezionisti, quello con cui si sentiva più in consonanza era Pietro Barilla, che passava in atelier tutte le sante domeniche. Erano diventati complici, spesso andavano a pranzo all’Aurora, che non esiste più, o alla Greppia, che c’è ancora».
Anna ricorda quando li vide partire sulla spider del re della pasta per la Biennale di Venezia del 1948 dove, su consiglio di Mattioli, Barilla prese il suo primo Morandi. «Figura amatissima quella del maestro bolognese, al quale una volta Enzo Biagi lo avvicinò per la stessa silhouette asciutta, severa, monacale e per la stessa tendenza a chiudersi gelosamente in una dimensione tutta propria».
Riservato, ma non isolato, fedele allo studio dei maestri del passato, da Tiziano a Caravaggio, Mattioli si teneva aggiornato sulle ricerche contemporanee, dalle quali, però, non si fece mai conquistare. «La coerenza è una delle maggiori eredità che Carlo Mattioli lascia all’arte del Novecento». E la Fondazione ha deciso di promuoverne la conoscenza attraverso nuove forme di lettura dell’opera, strumenti multimediali inclusi.
«Fin dall’inizio abbiamo scelto di cambiare corso, di fare tabula rasa di un vecchio modo di concepire le mostre per temi, periodi, cicli. Non vogliamo fare parlare di lui, ma fare sentire la sua voce, più che mai contemporanea, attraverso l’opera nuda», precisa Anna Zaniboni Mattioli. Un’operazione di spoliazione, dunque, come nella mostra in corso alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, dove i dipinti sono sollevati su strutture di lamiera acidata per magnificare la pittura nei suoi potenti ispessimenti materici, risultato di mille, miracolosi tocchi di pennello.