Ernaux, Nothomb, le parole: l’intimità ha la nostra voce
Famiglia e scrittura negli incontri delle due autrici. Che oggi discutono di traduzione
TORINO «Non dare false speranze». La raccomandazione di un addetto agli ingressi davanti alla Sala Azzurra, dove sta per iniziare l’incontro con Joël Dicker, si è ripetuta più volte davanti alla sala che ieri ha parlato prevalentemente francese. Le speranze sono quelle di entrare e assistere all’evento. Perché fin dalla mattina ci sono code chilometriche che si avvolgono su sé stesse, gli autobus scaricano decine di visitatori davanti alle biglietterie, nonostante il caldo estivo potesse indurre alla gita al mare. A molti incontri entrano prima i prenotati, tutti gli altri aspettano in fila mugugnando sull’organizzazione che non ha predisposto un luogo più capiente. «Non sappiamo contenervi tutti, sbagliamo sempre a scegliere le sale ma siamo contenti di sbagliare», gongola il presidente Giulio Biino di fronte a quest’assalto che sembra andare oltre ogni previsione. Introduce l’incontro con la scrittrice francese Annie Ernaux, che ha ricevuto il Premio Mondello dal presidente Giovanni Puglisi e da Lorenzo Tomasin, docente di Filologia romanza e di Storia della lingua italiana all’Università di Losanna, giudice monocratico che l’ha scelta per il riconoscimento internazionale.
Nella stessa sala, due ore più tardi, c’è Amélie Nothomb, l’autrice belga al suo libro numero 105 («ma in libreria arriva solo un terzo di quello che scrivo: scrivere e pubblicare sono due gesti differenti»), tra i 5 candidati del Premio Strega Europeo che viene proclamato oggi. Due scrittrici francofone molto diverse tra loro, eppure con qualche filo comune, che hanno fatto risuonare nella sala, a distanza di tempo, le stesse parole: padre, famiglia, classe sociale, biografia, verità, lingua.
Oggi Ernaux e Nothomb sono di nuovo al Salone, ospiti dell’Autore invisibile, il format dedicato alla traduzione coordinato da Ilide Carmignani, che da diverse edizioni prevede una sezione che si intitola L’autore e il suo doppio e mette a confronto uno scrittore con il suo traduttore.
Un rapporto fondamentale, spiega Carmignani che nella sua rassegna affronta tutti i problemi — anche legislativi, di diritti — che ruotano intorno a un ruolo troppo spesso sottovalutato: «Senza il traduttore lo scrittore esiste soltanto dentro i suoi confini e dentro il suo tempo. Il traduttore è suo sosia e suo socio. Sosia perché deve immedesimarsi con lo scrittore per restituire l’opera in italiano, deve capire simmetrie e asimmetrie della lingua prendendosene la responsabilità. È come Giove che deve assumere le sembianze di Anfitrione per poter possedere la moglie di lui, Alcmena, della quale s’è invaghito. Così, per possedere l’opera, il traduttore deve prendere le sembianze dello scrittore: diventare il suo doppio. Ma è anche socio, perché lo scrittore non vive del suo lavoro se non viene tradotto all’estero». Insomma, si deve creare un’intimità molto profonda per arrivare a «sentire» allo stesso modo.
Un’intimità che è, spesso, dentro un’altra intimità, quando, come nel caso sia di Ernaux sia di Nothomb, i testi scritti vivono dentro una verità che è la vita e l’esperienza delle autrici. «I traduttori — dice Nothomb che oggi dialogherà su questo con la sua voce italiana, Federica Di Lella — hanno un’importanza enorme. Io sono consapevole di mettere la mia vita nelle loro mani. È una relazione quasi d’amore, perché ho l’impressione che abbiano diritto di vita o di morte sul mio testo. La traduzione in italiano di Federica è meravigliosa, ha fatto un lavoro magnifico, ma so che in alcuni Paesi stranieri, per esempio in Russia, la resa è catastrofica. Insomma, può essere l’amore o il disastro». E il premio Strega Europeo ha cercato di accendere una luce sul traduttore, premiandolo accanto all’autore.
Nei suoi trenta romanzi Nothomb ha mescolato spesso la biografia con la finzione e, dice, «quando scrivo cerco di riprodurre il suono che sento dentro di me, la voce che mi parla». Nel caso del romanzo più recente, Primo sangue, la voce che cerca di ascoltare è quella del padre, morto recentemente, di cui ricostruisce la vita da diplomatico, soprattutto negli anni prima che lei nascesse. Il romanzo si apre con Patrick Nothomb davanti al plotone di esecuzione (viene risparmiato), nel corso di una missione diplomatica e la morte, come accade spesso nei libri di Amélie, ha una ricorrenza frequente anche se leggera. L’intimità nella scrittura è un tema ineludibile per lei: «Sono andata molto lontana nei miei romanzi, ho scritto di cose di cui non avevo mai parlato ma so che lui ha letto tutto».
Il tema dell’autobiografia riguarda molto anche Annie Ernaux, che ieri era accompagnata sul palco da Lorenzo Flabbi, suo traduttore ed editore. L’editrice L’orma, che oggi al Salone festeggia dieci anni, ha da poco pubblicato Guarda le luci, amore mio, una sorta di taccuino in cui per un anno ha annotato le sue visite al supermercato. Quella con Ernaux è quasi una simbiosi per Flabbi, che ha raccontato di essere arrivato a fare 18 versioni dello stesso paragrafo per riuscire a rendere al meglio la tensione che innerva le pagine della scrittrice rendendo lo stile così scabro e asciutto ma allo stesso tempo denso.
Ernaux in qualche modo rinuncia al romanzo, non usa mai la parola autofiction pur non inventando nulla di ciò che scrive. «Per me — dice — la prima persona è uno strumento. Il termine distanza è forse il più adeguato per descrivere il mio stile e vale per tutto ciò che scrivo. Quando ho lavorato a Il posto, il libro dedicato a mio padre, sapevo che esisteva una differenza tra me che avevo studiato e lui che aveva fatto l’operaio per tutta la vita, volevo evitare condiscendenza, emozioni. È un esercizio che non si può spiegare: passa attraverso la visione delle cose, il ricordo, le parole. Mio padre distingueva tra lavoro manuale e lavoro di testa, e questo forse mi ha segnato: ho bisogno che ciò che scrivo sia materiale, concreto. Con Il posto scrivevo contro la borghesia ma anche per i miei genitori. Per me scrivere significa che qualcosa comincia a esistere. La vita è stare davanti a un foglio, oppure passare, non vista, tra le corsie di un supermercato».
Attraverso le vicende sue e dei genitori, Ernaux — fa notare Lorenzo Tomasin — mette al centro due grandi oppressioni, quella di classe e quella di genere. «La più grande ingiustizia è quella di classe. Bisogna sempre ricordare che la disparità tra i sessi può spesso aggravarsi in presenza di una ingiustizia di classe. Una donna che non ha mezzi finanziari propri diventa vulnerabile. Oggi le condizioni delle donne per tanti aspetti sono migliorate ma ricordiamoci che nessuna conquista è definitiva».
La visibilità dell’universo femminile rispetto a quello maschile passa anche attraverso il linguaggio e pure questo è un tema affrontato dal ciclo di incontri di Ilide Carmignani. Ieri se ne è discusso all’appuntamento Femminile visibile tra la linguista Vera Gheno e Biancamaria Gismondi della redazione lessicografica del Devoto-Oli (Mondadori Education). La riflessione sull’inclusione in un dizionario di parole declinate al femminile (perché mettere il lemma maestra, oltre a maestro, e non ingegnera, oltre a ingegnere?) indica quanto profondo sia il cambiamento in atto nella nostra lingua e nella nostra società. Perché, nota Gheno, esiste un collegamento tra emersione linguistica ed emersione sociale.
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