Lotte di classe su una nave, Östlund cita Wertmüller E il romeno Mungiu fa una radiografia del razzismo
Forse gli eredi di Lina Wertmüller potrebbero pretendere i diritti: anche se in versione kolossal, Triangle of Sadness (il Triangolo dell’infelicità, cioè quello che sta sulla fronte, dove le rughe che si increspano ti fanno leggere le possibili preoccupazioni) dello svedese Ruben Östlund, già Palma d’oro nel 2017 per The Square, ripropone la situazione su cui si reggeva Travolti da un insolito destino..., con un naufragio che ribalta il rapporto di forze tra le classi. Qui i naufraghi sono tanti ma l’idea è quella. Anche se all’inizio il regista ci spinge su una pista falsa, con un divertente intermezzo sul mondo dei modelli maschili: è in uno di questi cast che facciamo conoscenza con Carl (Harris Dickinson), alle prese con la modella Taya (Charlbi Dean Kriek), preoccupata solo dal suo ruolo di donna-trofeo. Ma quasi subito il mondo della moda sparisce e ci ritroviamo su una crociera per super-ricchi dove i due giovani sono stati invitati come influencer. Dimenticando il dono della sintesi, Östlund descrive il mondo degli accompagnatori e dei servitori, tutti obbligati a obbedir sorridendo sotto la guida dell’efficientissima Paula (Vicki Berlin), e il mondo dei multimilionari, che sembrano capaci solo di pretese assurde e di magnificare le loro fortune.
Fino alla tradizionale cena col comandante (Woody Harrelson), rovinata da un’epidemia di mal di mare, le cose più o meno funzionano, almeno se uno si accontenta di scoprire che i ricchi sono cafoni e presuntuosi. Ma quando un fantomatico attacco di pirati fa naufragare la nave e i pochi superstiti si salvano su un’isola, dove l’ex addetta alle toilette Abigail (Dolly De Leon) pretende di comandare perché è la sola che sappia pescare e accendere il fuoco, a questo punto il rimpianto per Gennarino Garunchio e Raffaella Pavone Lanzetti ti esplode dentro: là si rideva e riflettevi sui rapporti di classe, qui aspetti che qualcuno venga a salvare loro dal naufragio e te da un regista convinto di poter scoprire ancora l’acqua calda. E alla fine verrebbe proprio da dire: torna Lina, tutto ti è perdonato! L’altro film della giornata è R.M.N. (la sigla di Risonanza magnetica nucleare) del rumeno Cristian Mungiu che ci porta in un paesino della Transilvania dove le tensioni nascosto tra gruppi etnici (rumeni, ungheresi, gitani) esplodono quando la locale industria di panificazione assume tre lavoratori dello Sri-Lanka per ingrandirsi e ottenere i finanziamenti europei. Il razzismo incendia gli animi degli abitanti mentre l’operaio (Marin Grigore) che è tornato dalla Germania deve fare i conti con i problemi familiari e un’amante troppo indipendente (Judith State). Mungiu si trova a suo agio quando descrive il populismo che si autoalimenta (la scena dell’assemblea popolare in un unico piano con la macchina fissa è da applausi) ma fatica a tener unito il pubblico e il privato, la lezione politica e quella esistenziale. E un finale fin troppo enigmatico sembra più furbo che davvero significativo.