IL MONDO APPENA NATO RACCHIUSO IN UNA FOTO
NELL’ARCHIVIO STORICO UN PAESE CHE (RI)FIORISCE A Torino il quarto museo di Intesa Sanpaolo punta sulla fotografia come riflessione sui grandi temi del presente. E nei sette milioni di immagini del passato ecco l’Italia che si scopriva viva
Il profilo gobboso e sudato di Fausto Coppi appare gigante sul muro e dal fondo nero arriva un colpo al cuore: quanto era bello. Era bella l’Italia in bianco e nero, anche quando era tragica. C’è una foto impressionante nell’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo: due donne che parlano tranquillamente da due finestre di uno stesso moncone di palazzo a Milano, semidistrutto dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Era bella anche quando era un po’ naïf, come Ornella Zamperetti, seconda a Miss Italia, che posa in costume da bagno a Stresa, nel 1948.
Un (corposo) pezzo d’Italia in bianco e nero rivive nella nuova sede dell’Archivio, Gallerie d’Italia - Torino, il neonato quarto museo di Intesa Sanpaolo. Su cinque piani, tre (ipogei) sono dedicati alla fotografia e i sette milioni di scatti di Publifoto si possono consultare in touch screen o «incontrare» nella sala interattiva, dove le immagini appaiono e scompaiono componendo un gigantesco mosaico della memoria. E sia negli scatti che arrivano come uno sciame dalle pareti, sia nella selezione della mostra curata da Aldo Grasso e Giovanna Calvenzi, dedicata al «miracolo economico» dal secondo Dopoguerra all’allunaggio, si ritrova una bellezza struggente, certamente legata alla nostalgia, ma non è solo quello. È un fervore di autenticità che, forse, va cercato nell’atto stesso del fotografare. La solennità dell’impiegato della Ricordi che trascrive uno spartito in sé non ha nulla di speciale, non ha la drammaticità di un reportage di guerra e nemmeno la forza straziante di un bambino che muore di fame.
E allora da dove viene quella specie di sacralità? Riflettiamo: quella foto non era fatta per intrattenere, bensì per documentare qualcosa. In questo caso il lavoro all’interno di un’azienda, ma poteva essere anche la fatica sul volto di Coppi, o l’alacrità di alcune mondine nei campi di riso.
La fotografia come testimonianza di qualcosa e non come souvenir di un momento da far dissolvere sui social network. La fotografia come racconto vero e proprio, perché un tempo sui giornali e soprattutto sulle riviste periodiche funzionava così: bastavano due foto a fare un articolo memorabile. La natura rigorosamente documentaria dell’immagine porta alla logica dell’archivio: scattare per conservare, dunque catalogare, tenere per la memoria.
Questo senso dell’istante fatto per durare si ritrova nella maggior parte delle migliaia di fotografie che compongono la cosiddetta «manica lunga» voluta da Michele De Lucchi a Palazzo Turinetti, un gioco architettonico che moltiplica gli spazi una volta che si scende per lo scalone principale. Dove si trova anche la mostra temporanea dedicata alla fragilità del pianeta firmata da Paolo Pellegrin: immagini epiche, dove il risveglio di un vulcano sembra una scena biblica. Questo spazio ipogeo diventa così un laboratorio intorno alla fotografia, che anche nelle prossime mostre rifletterà sui temi della sostenibilità e dell’ecologia.
E c’è un curioso ponte semantico tra queste immagini forti, solenni e la fotografia di una piccola folla di persone che si raggruma davanti al bancone della carne, in un supermercato appena aperto nel 1959 (che appartiene all’altra mostra temporanea, quella sul miracolo economico).
Forse perché in entrambi i casi persiste il sentore di un mondo appena nato, quello della natura ancestrale e quello di un Paese che scopre il benessere economico.
E con i soldi, anche lo spettacolo, l’intrattenimento, le dive «del popolo»: una bionda e spettinata Dalida saluta fotografi e ammiratori dal tettuccio di una macchina nel giugno del 1968. Anni più difficili stanno per arrivare, ma le ombre si perdono nella leggerezza di un’artista ignara del suo destino tragico e ancora splendente d’estate.
In tutte le istantanee c’è solennità: lo scatto era documento e non ancora intrattenimento
L’idea è quella di un faro sulle tematiche più urgenti attraverso l’arte della camera oscura