LA GUERRA E LE DONNE
In una conferenza stampa dello scorso febbraio, poco prima dell’aggressione all’Ucraina, Vladimir Putin accusò Zelensky di non aver rispettato gli accordi di Minsk del 2015. Aggiunse anche che il presidente ucraino non aveva alternative: o accettava le richieste russe o avrebbe condannato il proprio Paese alla distruzione. E concluse citando – in inglese – un detto russo: like it or not, it’s your duty, my beauty. Possiamo tradurlo così: che ti piaccia o no, è un tuo dovere, bellezza.
Igiornalisti presenti colsero subito la colorazione sessista di tale osservazione, riflesso della tradizionale cultura patriarcale russa. Putin aveva del resto esibito il proprio maschilismo due anni prima, firmando una legge volta a difendere i valori tradizionali della famiglia. Il provvedimento depenalizzava gli abusi minori dei mariti e rendeva più difficoltoso accertare gli stupri, soprattutto per le donne maggiorenni, oltre a punire le forme di unione diverse da quelle eterosessuali. La chiesa ortodossa salutò la riforma come una rivincita del domostroi, un manuale religioso del sedicesimo secolo sui diritti del capofamiglia e i rapporti famigliari. Le giovani donne moscovite la chiamarono invece, indignate, «la legge del ceffone».
Non possiamo stabilire una relazione fra la cultura del domostroi e le nefandezze compiute dall’esercito russo nei confronti delle donne e bambine ucraine. Un rapporto Onu del 2017 aveva però documentato il netto peggioramento della condizione femminile nelle repubbliche separatiste del Donbass, sostenute da Mosca: aumento della violenza domestica, discriminazioni sul posto del lavoro, riduzione di sussidi e servizi per le madri sole (a volte vittime di stupro). Nello stesso anno, più di mezzo milione di donne risultavano sfollate dal Donbass, in cerca di sicurezza per sé e per i propri figli.
I dati segnalano che nei regimi autoritari la situazione delle donne è caratterizzata da livelli molto elevati di subordinazione, insicurezza, aggressione violenta. E le guerre, tutte le guerre, tendono da sempre ad avere ripercussione drammatiche su madri, nonne, bambine e bambini. Il Corriere di venerdì ha raccontato quattro storie agghiaccianti di uccisioni a freddo in cui sono morti donne e bambini in fuga. Gli sfollati ucraini sono quasi otto milioni e la stragrande maggioranza è composta da donne con figli e nipoti. Stupri, gravidanze interrotte, parti in condizioni estreme sono all’ordine del giorno. Per fortuna siamo lontani dalle stragi (veri e propri «ginecidi») verificatisi durante molti conflitti etnici africani. Ma le cicatrici della guerra segneranno per sempre la parte più debole e vulnerabile della popolazione ucraina.
Da tempo l’Onu si sforza di mitigare l’impatto di genere delle guerre, attraverso interventi umanitari mirati. È stata anche messa a punto una Agenda per una politica estera «femminista», imperniata non solo sugli aiuti ma anche sulla prevenzione. L’idea sottostante è che il coinvolgimento diretto delle donne nelle decisioni, soprattutto quando si tratta di negoziare la pace, possa dare un contributo cruciale nell’arginare il ricorso alla violenza. Gli studi di psicologia sociale dimostrano che le donne hanno valori e inclinazioni diversi rispetto agli uomini, anche per ragioni biologiche. Un sopravvissuto giapponese a entrambe le esplosione nucleari (dopo Hiroshima aveva scelto di trasferirsi a Nagasaki) pronunciò in una nota intervista una frase memorabile: se alla Presidenza americana ci fosse stata una madre con un figlio piccolo, non sarebbe stata mai sganciata nessuna bomba.
In Europa, la Svezia è stata il primo Paese ad adottare già nel 2014 l’agenda femminista per la sua politica estera. Le iniziative più innovative hanno riguardato i processi di pace. Le funzionarie della diplomazia di Stoccolma hanno facilitato l’organizzazione e la conduzione di negoziati fra le parti in conflitto in molti Paesi (Mali, Siria, Afghanistan, Myanmar e Somalia), mettendo anche a disposizione risorse tecniche e finanziarie. In Colombia, il governo svedese ha fattivamente contribuito a inserire una prospettiva di genere nell’accordo di pace del 2016 fra le forze governative e quelle rivoluzionarie. Il gruppo di negoziatori era composto per un terzo da donne. Nell’accordo definitivo hanno trovato posto clausole sul rispetto dei diritti di donne e bambini e sulla «tutela del corpo umano».
La Nato si è impegnata nel 2015 a rispettare la risoluzione 1820 delle Nazioni Unite sulla prevenzione della violenza sessuale durante i conflitti. L’adesione della Svezia e della Finlandia potrebbe promuovere una traduzione pratica di questo impegno, imprimendo una svolta in direzione femminista anche in questa organizzazione. Il primo fronte in cui applicare il nuovo approccio potrebbe essere proprio il processo di pace in Ucraina. Sinora il negoziato (fallimentare) è stato condotto da soli uomini. È probabile che il domostroi proibisca alle donne russe di partecipare a una attività da sempre riserva maschile. Motivo di più perché sia l’Europa (la gamba europea della Nato) a dare oggi il buon esempio.