CENT’ANNI IN PARADISO
Il Giro festeggia il traguardo secolare del parco valdostano Da riserva di caccia reale a zona protetta per salvare lo stambecco La tappa celebra la prima «oasi» nazionale italiana, amatissima dai pionieri dell’alpinismo, come dal turismo borghese. Con un
Anche il Giro d’Italia ha voluto festeggiare i cento anni del Parco nazionale del Gran Paradiso e lo ha fatto con la 15esima tappa, che avvolge in un abbraccio geografico questa spettacolare area di montagna a cavallo tra Piemonte e Valle d’Aosta. Nel 1922, quando il più antico parco nazionale italiano venne istituito, il Giro era reduce dalla parentesi della Grande Guerra. Si disputavano competizioni eroiche, in cui trionfavano Girardengo, Gaetano Belloni e Giovanni Brunero. Furono loro ad aggiudicarsi le prime cinque edizioni dopo il conflitto.
Il 1922 fu un anno fatale per l’Italia. Nell’autunno Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto che proclamava lo stato d’assedio e la marcia su Roma si trasformò in un colpo di stato. In quelle giornate roventi nessuno prestò attenzione a un altro Regio Decreto, che riconvertiva la riserva di caccia sabauda nel Parco Nazionale del Gran Paradiso.
Da Rivarolo Canavese le montagne del Gran Paradiso si stagliano all’orizzonte con i loro profili innevati. I corridori sfioreranno la Valle dell’Orco, l’accesso meridionale del Parco. Questo versante è stato appena lambito dallo sviluppo turistico, che ha invece investito le più fortunate valli aostane. Ma qui si può respirare ancora l’aria di vecchia montagna subalpina, dove i pionieri dell’alpinismo torinese si inerpicavano alla scoperta delle vette di casa, tante volte avvistate dalla collina di Superga.
Poi la corsa si inoltrerà nel Canavese caro al poeta crepuscolare Guido Gozzano: «Ivrea turrita, i colli di Montalto, / la Serra dritta, gli alberi, le chiese». Subito dopo la Val d’Aosta si annuncia con le sue geometrie glaciali di valle dal fondo piatto, da cui si levano i pendii fittamente terrazzati della viticoltura di montagna, che produce alcuni dei migliori vini delle Alpi. La stretta di Bard è dominata dal forte, che, stando alla leggenda, Napoleone avrebbe furtivamente superato fasciando con gli stracci le ruote dei suoi cannoni. Lungo la valle si susseguono ora i famosi castelli valdostani, capolavori architettonici della civiltà alpina, strategicamente collocati per un rapido inoltro dei messaggi con bandiere, specchi e fuochi. Aosta è una delle capitali dell’archeologia romana. La grandiosità dell’Arco di Augusto, del Teatro, della Porta Pretoria, delle mura testimonia il valore strategico di questo crocevia, che controllava i grandi valichi transalpini. I romani lo conquistarono dopo una sanguinosa lotta con le popolazioni celtiche locali, i salassi, ma nelle valli superiori non si spinsero mai.
Le due severissime salite di Pila e di Verrogne ci portano ad affacciarci ai ghiacciai del Gran Paradiso. Soprattutto da Verrogne le valli dell’unico «quattromila» interamente italiano, Val di Cogne, Valsavarenche, Val di Rhemes, si aprono con il loro spettacolare ventaglio di boschi e di vette. Poi la corsa volgerà verso il traguardo di Cogne. Fra queste aspre montagne alla fine del XVIII secolo si erano rifugiati gli ultimi esemplari di stambecco. Nel 1821, un secolo prima della nascita del Parco, per una strana contraddizione di cui la storia non è avara, la zona divenne riserva reale di caccia. Ora solo il re poteva cacciarli. E fu questo a salvare gli stambecchi, che a partire di qui poterono essere reintrodotti su tutte le Alpi.
Le cacce reali di Vittorio Emanuele II sono state raccontate da Giuseppe Giacosa in Novelle e paesi valdostani e dall’abate Gorret, che scrisse Victor-Emanuel sur les Alpes. A lungo Cogne è rimasta appannaggio di un turismo borghese, soprattutto torinese e genovese. Ma qui i cogneins ricordano ancora Togliatti, Nenni, Natalino Sapegno, Cesare Segre. Oggi per le stradine del paese può accadere di imbattersi nel giudice Violante e in Fabio Fazio. Il Parco ha mantenuto intatti i paesaggi intorno all’antico villaggio minerario. Appena scesi di bicicletta, dopo la volata finale, agli ansimanti corridori del Giro basterà gettare uno sguardo al Prato di sant’Orso, perfetto come un secolo fa, per capire che questa volta sono arrivati in un posto dove anche la natura può tirare il fiato.