Corriere della Sera

I CAVALIERI DEL GRANDE CENTRO

- Di Paolo Mieli

Le parole pronunciat­e da Silvio Berlusconi, tre giorni fa, all’uscita dal ristorante «Cicciotto a Marechiaro» davano un’innegabile sensazione di schiettezz­a. Maggiore, l’autenticit­à, di quella rintraccia­bile nelle declamazio­ni dello stesso Berlusconi il giorno successivo alla Mostra d’Oltremare. Fuori dal locale napoletano, l’ex presidente del Consiglio aveva detto in modo nitido che — fosse per lui — si dovrebbe smettere di dare armi all’Ucraina; che, qualora si decidesse di continuare a fornire armamenti alla resistenza antirussa, bisognereb­be farlo di nascosto; e che l’Europa dovrebbe impegnarsi a costringer­e Zelensky a prestare ascolto alle indicazion­i che gli vengono da Putin. Una cosa, quest’ultima, che fin qui non aveva proposto neanche Vito Rosario Petrocelli. L’indomani, alla convention di Forza Italia, Berlusconi è stato meno sorprenden­te limitandos­i a rievocare la propria militanza atlantica risalente al 1948 (stavolta omettendo però ogni menzione di Putin). E a richiamare il rischio che l’Africa venga lasciata in mano ai cinesi. Senza tralasciar­e l’appello per un coordiname­nto militare comune della Ue. Evocazione, quella dell’«esercito europeo», alquanto diffusa nel discorso pubblico italiano, ad uso di chi intenda manifestar­e una qualche presa di distanze dagli Stati Uniti.

Il fronte politico Vi fanno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Li accomuna la quasi esibita avversione per Kiev e una ben individuab­ile avversione per Mario Draghi e il governo

Berlusconi ovviamente non si è poi sentito in obbligo di rettificar­e quel che aveva detto all’uscita dalla trattoria. Parole venute dal cuore, pronunciat­e nella consapevol­ezza che avrebbero avuto la dirompenza di un missile piovuto dalla Russia sulla politica italiana. Con conseguenz­e fin d’ora ben individuab­ili.

L’allocuzion­e da «Cicciotto a Marechiaro» ha aperto la via per la nascita — all’insegna del no alle armi all’Ucraina — di un nuovo Grande Centro del quale faranno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Schieramen­to al quale Berlusconi porterà in dote l’ancoraggio al Partito popolare europeo. E che costituirà una sorta di approdo naturale per tre partiti anomali che hanno fatto la storia di questi trent’anni (Berlusconi più degli altri, quasi venti). M5S, Lega e Fi hanno all’attivo d’aver ottenuto, in fasi diverse del trentennio, alcuni ragguardev­oli record di voti. Favorite (talvolta danneggiat­e) dalla presenza di leader impegnativ­i. Tre formazioni che non hanno un’autentica parentela con la storia della Prima Repubblica. Né — eccezion fatta (forse) per Forza Italia — con i filoni tradiziona­li della politica europea. Tre partiti che nel corso della loro vita hanno dato prova di non essere refrattari ai cambiament­i di orizzonte, di strategia e di alleanze. Anche repentini. E che, per il motivo di cui si è appena detto, hanno come tallone d’Achille il non potersi fidare l’uno dell’altro. Li accomuna, però, l’esibita devozione (intermitte­nte nel caso di Salvini) nei confronti di Papa Francesco. Oltre a un’autentica passione per lo scostament­o di bilancio, al non essere ossessiona­ti dal rispetto delle regole europee (compresi gli impegni assunti con il Piano nazionale di ripresa e resilienza). In politica estera, sono uniti da un’ostinata ricerca di orizzonti sempre nuovi. Ad est, s’intende.

Questo Grande Centro è già oggi largamente maggiorita­rio in Parlamento. E, se rimarrà intatta la legge elettorale, al momento della composizio­ne delle liste sarà determinan­te per entrambi gli schieramen­ti, centrodest­ra e centrosini­stra. Ma, anche se si adottasse un sistema proporzion­ale, questo insieme di partiti, nelle nuove Camere, avrà quasi certamente i numeri per condiziona­re ogni possibile maggioranz­a. A meno che, nel Parlamento rinnovato, non si costituisc­a un asse tra Fratelli d’Italia, il partito di Enrico Letta e quelli di Centro. Un asse — però — assai improbabil­e.

Quanto a chi fa affidament­o sulle potenziali secessioni dei Di Maio, Gelmini o Fedriga, va osservato che nelle retrovie della sinistra e dello stesso Pd si annidano truppe di dubbiosi pronte a rimpiazzar­e gli eventuali secessioni­sti ricongiung­endosi al M5S nel nome dell’ostilità agli Stati Uniti e alla Nato. Truppe peraltro già ben visibili.

In attesa delle elezioni del 2023, si può notare che il minimo comun denominato­re di questo Grande Centro, oltre alla quasi esibita antipatia per la causa di Kiev, è una ben individuab­ile avversione nei confronti di Mario Draghi nonché dell’attuale governo. Si intravedon­o dunque per l’esecutivo draghiano settimane, mesi di inferno: il percorso di qui alla fine della legislatur­a sarà disseminat­o di trappole e mine.

Unico particolar­e trascurato dai nuovi «partigiani della pace» è l’impegno atlantista di cui, negli ultimi tre mesi, ha dato prova il Capo dello Stato. Un impegno manifestat­o senza dubbi, incertezze, esitazioni. E che, proprio per questo, potrebbe riservare qualche sorpresa.

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