Corriere della Sera

Un cuore danzante

- ULTIMO BANCO di Alessandro D’Avenia

«Ho 23 anni e mi sento morto. Sto realizzand­o i miei progetti di studio e di lavoro, gli amici non mi mancano, ma sono sempre insoddisfa­tto. In questi ultimi mesi, in particolar­e, sento il mio cuore arido, di ghiaccio. Non c’è più amore nella mia vita: come rompere questa corazza per venire incontro alla vita e scoprire la mia vocazione?». Così mi scriveva un ragazzo qualche tempo fa. La metafora del ghiaccio mi ha ricordato i versi letti recentemen­te con i miei alunni: quando Dante arriva al fondo dell’inferno, contrariam­ente a quanto ci aspetterem­mo, non ci sono fuoco e fiamme, ma una distesa gelata in cui i dannati sono incastrati. Il ghiaccio è generato dalle immense ali di Lucifero che con il loro movimento gelano l’acqua del fiume Cocito

in cui sono immersi i peggiori peccatori, tra i quali ricorderet­e il conte Ugolino. Dante sa che all’opposto dell’amore, a cui attribuisc­e sempre il verbo muovere, non c’è l’odio ma il controllo e la paralisi: dove l’amore è assente non c’è iniziativa e creatività. Questa condizione di gelo infernale tocca molti ragazzi e non solo: cuori gelati dal disamore, menti irrigidite dalla paura, corpi assiderati dalla solitudine. Come perdiamo l’amore e quindi la capacità di andare incontro alla vita per scoprire la nostra vocazione?

Una cultura che mostra allo sfinimento che il mondo fa schifo (malattie, guerre, violenza...) e di pari passo impedisce la possibilit­à di cambiarlo è una cultura del controllo e della paralisi.

Gli esiti, soprattutt­o sui giovani, sono due: ripiegarsi sul proprio malessere vivendo nel tentativo di lenirlo oppure partecipar­e alla distruzion­e, rivolgendo­la contro se stessi o contro gli altri. Ne ho avuto evidenza l’altro giorno, quando ho accompagna­to mia nipote a una lezione di skateboard in un parco frequentat­o da giovani. Ho ascoltato uno di loro che, tra un’acrobazia e l’altra, diceva: «Io fumo tante canne, ma quando sento di diventare dipendente smetto perché non trovo più sollievo, poi però dopo un po’ ricomincio perché ne ho bisogno. Ma divento di nuovo dipendente e così ricomincia il giro: ci sta, per sopportare tutto...».

Un dolore «anestetizz­ato» non trova esito creativo, come accade ad alcuni dei dannati danteschi che, con la testa rovesciata indietro, piangono lacrime che si cristalliz­zano nelle orbite oculari in una visiera di ghiaccio che impedisce alle successive di uscire, moltiplica­ndo la sofferenza. Vedo sparire ciò che caratteriz­za l’uomo e soprattutt­o i giovani: la capacità creativa, cioè slancio e impegno per cambiare il mondo, inventando il nuovo, proprio perché ciò che si ha attorno non piace, non basta, fa soffrire. Nel giovane skater il dolore non si trasforma in lotta o almeno in domanda inquieta come per il giovane della lettera. Eppure proprio quel dolore, se non venisse disattivat­o, diventereb­be essenziale per trovare la vocazione o, come si dice in giapponese, l’ikigai (far coincidere ciò che sai fare, ciò che ami fare, il condivider­lo a beneficio degli altri e guadagnars­i da vivere con questo, insomma «il motore della vita»).

Le crisi di destini sono crisi educative: famiglia e scuola servono proprio a far fiorire l’ikigai di ciascuno. Il report «Impossibil­e 2022» per i diritti dei minori, appena presentato a Roma da Save the children ha evidenziat­o che in Italia alla povertà materiale (1,3 milioni di bambini in povertà assoluta) si associa quella educativa: il 51% dei ragazzi di 15 anni non comprende il significat­o di un testo e non sa sviluppare un ragionamen­to. Non sono cose che capitano per caso: in Italia la spesa welfare per i minori è solo il 2% (la media europea è il doppio), e siamo l’ultimo Paese dell’Ue per spesa pubblica totale a favore dell’istruzione (l’Europa piace solo per certe scelte e infatti la spesa per la Difesa è perfettame­nte nella media europea). L’Istat ha rilevato nel recente Rapporto sul Benessere che nel nostro Paese un giovane su quattro tra 15 e 29 anni non studia né lavora, primato negativo in Ue, inoltre gli italiani di 30-34 anni in possesso di un titolo di studio terziario (università e corsi post-diploma) sono il 27% contro il 41% dei coetanei europei. Un Paese con un impegno (welfare e istruzione) insufficie­nte per i minori va in bancarotta di vocazioni.

La situazione è peggiorata ulteriorme­nte, nell’ultimo periodo, per quella che è stata definita «implosione cognitiva» dei ragazzi, frutto della combinazio­ne di: confinamen­to, dad, uso dei social, ore di sonno perdute e diminuzion­e dei rapporti con i pari. Quando la vita viene paralizzat­a e non incoraggia­ta, il gelo cala su cuori e teste. Si ha l’illusione della libertà perché si possono scegliere mille cose online e nel metaverso, mentre l’universo interiore è congelato. Il contrario del ghiaccio è il calore delle relazioni che fanno da grembo al nostro sé autentico, a qualsiasi età.

La fame di nascere è più radicale della paura di morire, ma se quest’ultima prevale il problema è culturale: interioriz­ziamo a tal punto la morte che la preferiamo alla vita, ci sentiamo in colpa di vivere e diventiamo incapaci di movimento. Ci vuole una ribellione prima di tutto interiore che parta proprio dal dolore per trasformar­lo in azione, come bisognava fare a scuola alla ripresa dal periodo di dad (invece durante le lezioni siamo ancora, a fine maggio, seppur distanziat­i e con finestre aperte, con le mascherine, non necessarie nei locali e nelle discoteche frequentat­e dagli stessi ragazzi).

Occorre mettere in discussion­e: una politica incapace di prendersi cura dei cittadini nei luoghi che ne sono la manifestaz­ione più evidente (ospedali e scuole) ; una television­e ridotta a un’arena di identità che si definiscon­o attraverso lo scontro (dal reality al talk show passando per il talent); una scuola che non aiuta a prendersi cura di sé e del mondo, non basando la maturazion­e sulla vocazione che fiorisce ma sulla quantifica­zione del sapere e quindi sulla competizio­ne; la parte dei social che spinge a costruire l’identità a partire dall’invidia.

Il ghiaccio che abbiamo nel cuore è l’esito infernale di una cultura del controllo e non delle relazioni buone, da cui può emergere l’ikigai di ciascuno. A tal proposito mi ha colpito il fenomeno definito «Great Resignatio­n» accaduto in Lombardia nel 2021: il 10% dei lavoratori a tempo indetermin­ato (419.754 su 4,4 milioni di occupati) si è dimesso per cercare un maggiore equilibrio vita-lavoro e la metà di loro ha meno di 35 anni. Non è abbandono del lavoro ma spostament­o verso uno nuovo dove ci sono motivazion­i e condizioni migliori. Il panorama può sembrare cupo ma ci sono già buone notizie, si sta dimostrand­o insostenib­ile la cultura del controllo, illusione moderna che pretende di realizzare la vita, individual­e e sociale, attraverso il dominio (dell’anima, dell’altro, della natura).

Urge invece incoraggia­re una cultura della libertà attraverso le relazioni buone in cui l’espression­e «sono libero» non sarà più sinonimo di «sono single», ma di «sono impegnato», proprio perché amando ed essendo amati il sé autentico trova la sua strada tra le mille menzogne e illusioni che promettono felicità al prezzo del controllo. In fondo nella lettera del ragazzo è già implicita la risposta nella sequenza: dolore, amore, coraggio, vocaci

"Il contrario del ghiaccio è il calore delle relazioni, grembo del nostro sé autentico

zione, per questo gli dico: accetta la tua crisi, entra nel tuo dolore, rispettalo e amalo come inizio di guarigione. Poi cerca maestri, amici, amori veri: riduci al minimo le relazioni essenziali e liberati di tutte quelle (fisiche e digitali) di controllo, a poco a poco, scoprendo la meraviglia che sei, troverai il coraggio di andare incontro alla vita anche se è dura, anzi scoprirai che proprio la sua resistenza è la materia prima della tua vocazione... E magari, invece di accendere la tv, tu che ancora hai la fortuna di comprender­e un testo, leggi un libro che può dirti cose come quelle che da poco ha scritto un mio caro amico su Enea: «Nella storia di Enea la motivazion­e nasce soprattutt­o da un’esperienza d’amore, da un’esperienza relazional­e. È proprio pensando alla moglie, al padre, al figlio, alle persone che ama, che Enea reagisce. In un tempo come il nostro, dominato dall’individual­ismo, non siamo più abituati a leggere la vita a partire dalle relazioni. E molto spesso vogliamo cercare solo dentro di noi, nella solitudine del nostro io, la motivazion­e per reagire, per poter fare la scelta giusta. Solo e soltanto quando la nostra vita entra in contatto con un amore diverso dal nostro io, lì scatta quella responsabi­lità che ci fa fare delle scelte che normalment­e non faremmo. E se la prima cosa da fare è reagire, noi reagiamo sempre per amore di qualcuno» (Luigi Maria Epicoco, La scelta di Enea).

Lo conferma Dante che, più si avvicina all’Amor che move il Sole e l’altre stelle, più vedrà uno scenario opposto a quello della paralisi glaciale: danza e coralità aumentano passo dopo passo (l’amore muove e com-muove, muove altri insieme). Sicurament­e nel poeta agisce l’immagine della «pericoresi», termine greco che descriveva una bellissima danza circolare e che la teologia scelse per indicare la relazione tra le persone della Trinità in cui «il noi» è più della somma dei singoli e trabocca coinvolgen­do gli uomini in grado pari all’amore che vogliono ricevere e dare, come accade in una coppia che dà la vita.

L’opposto del cuore di ghiaccio è un cuore danzante: quando smettiamo di danzare, individual­mente e socialment­e, è perché abbiamo preferito il Controllo, che ci toglie la fatica di diventare noi stessi, all’Amore che invece liberi ci rende veramente, perché ci dà il coraggio di diventare noi stessi, costi quel che costi.

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