Corriere della Sera

L’auto che rallenta, il boato delle 17.58 Superstiti e parenti, le voci della strage

- di Antonella Lattanzi

Ascoltando Capaci, 23 maggio 1992 – Le voci della strage, episodio speciale del podcast «Corriere Daily» scritto e condotto da Giovanni Bianconi (con la produzione di Carlo Annese), non si può non ripiombare nello sgomento, nella rabbia, nella commozione di quei giorni. Nella disperazio­ne dei superstiti, dei familiari delle vittime. Nell’incredulit­à affranta di Rosaria Schifani, moglie di Vito, poliziotto della scorta di Giovanni Falcone morto nella strage, che ai funerali chiese non solo a chi l’aveva compiuta materialme­nte ma anche a chi sapeva e non parlava «il coraggio di cambiare». E ancora oggi, chiede verità.

Mentre ascolti, quel 23 maggio 1992 ti appare nella testa, raccontato dalle voci di Rosaria, Angelo Corbo — poliziotto della scorta sopravviss­uto alla strage — e Michele Dicillo, fratello di Rocco, ucciso nell’attentato. È un pomeriggio di sole quasi estivo. Le tre Fiat Croma blindate percorrono l’autostrada che dall’aeroporto di Palermo porta in città. All’improvviso la macchina di mezzo, quella con a bordo il giudice Falcone — alla guida —, sua moglie Francesca Morvillo — accanto a lui — e l’autista giudiziari­o — seduto dietro — rallenta, a pochi metri dal bivio di Capaci. Falcone sta guidando perché sua moglie soffre il mal d’auto, ha bisogno di stare davanti, e allora lui si è messo alla guida perché «da uomo vecchio stampo», come racconta Angelo Corbo, non poteva lasciare la moglie sola sul sedile anteriore. La macchina, dunque, decelera: Falcone ha sfilato dal quadro le chiavi dell’autista per sostituirl­e con le sue. Corbo, che lo segue nell’ultima macchina con Gaspare Cervello e Paolo Capuzza, assiste alla scena. Cervello ha appena il tempo di dire: «Perché Falcone rallenta così tanto?». Un attimo dopo, l’esplosione.

L’asfalto si solleva e si squarcia. Corbo racconta che sente l’auto volare e poi ripiombare a terra. Lui e i suoi colleghi escono dalla macchina feriti, insanguina­ti. Che succede? Nella strada si è aperta una voragine. In quella voragine precipitan­o le vite di Falcone, Francesca Morvillo e di tre poliziotti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Ma non precipitan­o solo loro. Precipitia­mo anche noi, che non possiamo dimenticar­e quella tragedia incomprens­ibile. Precipita un Paese intero. E precipita, ancora, l’Italia di oggi. Dopo l’esplosione — racconta ancora Corbo — l’aria si fa irrespirab­ile, il cielo diventa «marrone». L’orologio della moglie di Falcone, come dirà una poliziotta via radio, si ferma all’ora della strage: le 17.58. Niente sarà più come prima.

Le voci di chi ricorda quei giorni orribili si alternano a quelle dei poliziotti che per radio si scambiano le informazio­ni via via in arrivo e che scandiscon­o la narrazione. Michele racconta di come suo fratello fosse orgoglioso di lavorare per il giudice simbolo della lotta antimafia, di come fosse «innamorato di questa figura». Rocco era perito chimico, avrebbe potuto lavorare nei laboratori della scientific­a. Ma era diventato un agente della scorta di Falcone per aiutare anche lui a far rinascere la sua città. Angelo racconta che non si perdonerà mai una frase che ha pronunciat­o: aveva giocato al Totocalcio, era convinto di fare tredici, e prima di partire per l’aeroporto aveva detto a Montinaro che sentiva che quel giorno la sua vita sarebbe cambiata. «La schedina non l’ho mai controllat­a» ma purtroppo la vita di tutti è cambiata davvero. Rosaria ricorda il «calvario» che ha dovuto passare per sapere che suo marito era morto: nessuno voleva dirle la verità. Le ultime parole che Vito le ha detto sono state: «Non aspettarmi sveglia». L’ha ritrovato in una bara all’obitorio. Ai funerali di Falcone e la sua scorta Rosaria aveva solo 22 anni ma non aveva paura di parlare. Il suo discorso è indimentic­abile per chi l’ha ascoltato al tempo, e adesso le parole che pronunciò quel giorno tornano fortissime, anche se Rosaria parlava con un fil di voce. «Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare. Se avete il coraggio di cambiare i progetti mortali che avete».

Capaci, 23 maggio 1992 scatena una rabbia e un’incredulit­à che non si sono mai sopite, e racconta, con coraggio e senza sconti, questa storia anche a chi non l’ha vissuta. Riapre una ferita che non si è mai chiusa, e non deve chiudersi. Perché, insieme a Rosaria, c’è una cosa che tutti noi chiediamo ancora: la verità.

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