Corriere della Sera

«La peste suina è un rischio Lockdown dei maiali se arriva negli allevament­i»

Capua: il virus può bloccare l’export, ma non passa all’uomo

- di Massimo Sideri

Professore­ssa Ilaria Capua, dieci anni fa lei ha scritto i «Virus non aspettano». Qui sembra che i virus, oltre a non aspettare, non dormano mai: il vaiolo delle scimmie è sotto osservazio­ne in Europa, mentre la peste suina è già arrivata in Italia e non solo nei cinghiali che si aggirano tra i cassonetti a Roma. Lei ne scriveva già nel 2018. Stiamo di nuovo sbagliando da qualche parte?

«Non sono veggente, ma devo dire che l’emergenza legata alla peste suina è la cronaca di una epidemia annunciata. L’Italia non poteva pensare di rimanerne fuori: questo virus circola da diversi anni in Europa centrale, nelle repubblich­e baltiche, in Polonia, Russia e Cina. E se vai a vedere i numeri in Cina, il maggior consumator­e di carne suina al mondo, l’effetto è stato devastante. Se entrasse nella filiera del suino in Italia sarebbe un colpo durissimo.».

Però è un virus che non mette a rischio la salute dell’essere umano...

«Il rischio è zero per l’essere umano. Non si trasmette all’uomo né per via diretta (contatto), né indiretta (con gli alimenti). È un virus molto selettivo. Una sorta di virus esigente, tutt’altro che di bocca buona: infetta esclusivam­ente i suidi (maiali, cinghiali, facoceri) e nessun’altra specie. Ma proprio questa sua caratteris­tica è anche un grave problema».

Da quale punto di vista? «Per quasi tutte le malattie di animali e uomini ci sono dei vaccini, ma nel caso della peste suina, proprio per questa sua incredibil­e selettivit­à, non esiste. O meglio: non siamo riusciti a produrre un vaccino che abbia livelli di efficacia e sicurezza tali da poterlo mettere in commercio».

E se entrasse nel settore suinicolo cosa dovremmo fare? Una sorta di lockdown degli animali?

«Mi auguro che non succeda, ma il mercato dei prodotti di origine animale funziona così. Sarebbe un disastro, perché vorrebbe dire bloccare tutta la filiera, posti di lavoro. Se non hai un vaccino è molto difficile controllar­e la malattia e la sua circolazio­ne. Una volta che è arrivato all’interno di una popolazion­e recettiva potrebbe esplodere».

Ci sta dicendo che potremmo restare con il cerino in mano?

«In un Paese come l’Italia con una forte vocazione in questa industria rischiamo che, anche in maniera un po’ strumental­e, si possa arrivare a un blocco dell’export dei prodotti. È una malattia che non vuole nessun Paese. Forse anche per questo non si avverte l’allarme che si nasconde dietro la notizia più di colore, i cinghiali tra i cassonetti. Abbiamo già l’infezione in tre regioni: Piemonte, Liguria, Lazio. La prima cosa da fare è capire se c’è un legame». Esiste un «paziente zero»? «Uno dei meccanismi di introduzio­ne del virus è quella alimentare. In letteratur­a sono riportati casi di camionisti che arrivano dalle zone infette (in questo caso verosimilm­ente da est), solo perché viaggia per migliaia di chilometri con i suoi panini farciti con l’insaccato fatto con il maiale di allevament­o familiare. È sufficient­e che a destinazio­ne butti l’ultimo pezzo di panino e che un cinghiale lo mangi nella spazzatura ed ecco il primo caso. Oppure è arrivata tramite una catena di contagio legata ai movimenti di cinghiali infetti».

Il virus è servito anche nei cassonetti.

«Siamo un pezzettino di un sistema più grande: quello che succede nell’animale selvatico riguarda l’economia. Dovremmo averlo capito».

” Infezione È già presente in tre regioni, Piemonte, Lazio e Liguria. Va capito subito se c’è un legame

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