Corriere della Sera

Chiamateci giallisti, noiristi e thrilleris­ti: il male ci parla

Robecchi, Biondillo, Vichi, Carrisi & C.: il thriller entusiasma

- Dal nostro inviato Carlo Baroni

Agli italiani piacciono le storie che non sai come vanno a finire. Forse perché il finale lo puoi immaginare sempre diverso. Non sappiamo resistere alle stanze con tante porte, nessuna aperta. Il Paese del sole adora la penombra che sconfina nel buio. Il Male non si nasconde. Solo che non lo vedi. Qualche volta ce l’hai dentro.

Le declinazio­ni di chi lo racconta sulle pagine sono tante: giallisti, thrilleris­ti, noiristi. Puntare su di loro al Salone del Libro è voler vincere facile. Eventi esauriti, pubblico delirante. Sarà che la scrittura di questi generi è ecumenica e trasversal­e. Democratic­a e egualitari­a. Raggiunge tutti e li colpisce. Bad news, good news, come si dice nei giornali. Il Bene non fa tanto notizia. Neanche sui libri. Però non è tutto oro quello che abbaglia gli occhi dei lettori. E ci sono anche voci dissonanti, tra gli stessi scrittori.

Adesso poi ci si sono messi anche i luoghi. Non sono più sfondi necessari per raccontare una storia, ma protagonis­ti che «parlano» anche loro. È un genere letterario che adora gli anfratti dell’anima e gli scrigni nascosti delle città. Tutte rivalutate, riqualific­ate. Prendiamo la Milano di Alessandro Robecchi. Il «suo» posto nel mondo. Ci voleva un giallo per farla vedere così com’è. Bella e basta. «Fino agli anni Ottanta la mostravano come sfondo dei cinepanett­oni. Il posto del ricco scemo. Poi hanno deciso di puntare su modelle e design. Come se tutti gli abitanti vivessero nel bosco verticale». Una mutazione genetica senza o con poco senso. Bastava rifarsi agli scrittori, sì anche ai giallisti degli anni Cinquanta-Sessanta. Scerbanenc­o, per esempio. «Per dire che Milano non è per niente grigia, per niente solo ricca, per niente fredda».

Ci voleva il suo Carlo Monterossi per presentarl­a nella sua vera essenza. Come si dice un detective per caso. Ma è solo un pretesto. Per avere il permesso di soggiorno nei meandri che nessuno vorrebbe percorrere. E diventano più comprensib­ili, persino accettabil­i se collocati in una confezione accattivan­te come Milano. Anche il noir ha messo nell’armadio l’impermeabi­le dei commissari indossato anche d’estate. Peraltro la stagione dei delitti. Carlo Monterossi in tv ha le fattezze di Fabrizio Bentivogli­o e non sai dove finisca l’uno e cominci l’altro.

Milano è anche la location dei libri di Gianni Biondillo. Lui di case se ne intende: «Sono un architetto di formazione». I suoi sono i gialli con in più il gusto della tradizione. C’è un commissari­o, di solito separato con figlia, c’è un delitto. C’è un colpevole. E il posto conta tanto. Perché descrive le persone prima ancora che venga fatto l’identikit. «Ma smettiamol­a con il mantra che il giallo tira. Non è vero. È un’idea figlia di un pregiudizi­o. Il giallo, il noir sono intratteni­mento e quindi vendono per forza. Ma allora perché non ci sono giallisti tra i premi Strega e Campiello? Quelli che fanno la differenza. E per dirla tutta ci sono anche troppi scrittori di questo genere di letteratur­a. E libri sciatti, con trame orrende e improbabil­i. A volte mi chiedo se non sia una moda, come quando

Fondamenta­li le ambientazi­oni: ogni detective ha bisogno di una città che gli faccia da sfondo. Ed ecco Milano, Firenze, Napoli

andavano i volumi sui vampiri e i libri di fantascien­za. Io resto all’antica definizion­e: esistono i libri belli e i libri brutti, il resto è dare significat­i che non esistono».

Gian Andrea Cerone è una new entry. Savonese di nascita, ma anche lui fa muovere la Unità di analisi del crimine violento da Milano. «E pensare che avevo iniziato con il rugby».

I luoghi e i tempi. La Milano di oggi, la Firenze degli anni Sessanta. Quella del commissari­o Bordelli creato da Marco Vichi. «Mi interessa raccontare il male, la parte peggiore della vita. Le indagini del mio commissari­o sono quasi solo un’ossatura, una scatola necessaria per andare oltre un’inchiesta, la cattura di un colpevole. Il genere giallo, il poliziesco sono strumenti, il fine è un altro. Per questo curo la lingua dei miei protagonis­ti, studio le ambientazi­oni». E scrivere è anche l’occasione per leggere gli altri: «Quando dicono: nei tuoi romanzi quel poliziotto mi ricorda Maigret, penso che sia vero. Siamo i depositari di ciò che leggiamo. Adesso sono affascinat­o da Alba de Cespedes. Un’autrice un po’ dimenticat­a. Eppure c’è tanta ricchezza nelle sue opere».

Il tempo può tornare indietro fino agli anni Trenta, l’epoca del commissari­o Ricciardi di Maurizio de Giovanni. Il cantore di una Napoli eterna. E anche qui la trama è funzionale a qualcosa di più grande. Libri ambientati a Napoli che non la nominano nemmeno. Forse è un vezzo, ma di certo tutti la riconoscon­o senza bisogno di pronunciar­ne il nome. «Gli anni Trenta potevano apparire un periodo ostico da mettere in un libro. Per via del regime fascista. Ma sono stati anni interessan­ti, non c’era solo la cappa della dittatura. Scriverne mi ha dato la possibilit­à di documentar­mi, di conoscere ancora meglio e offrire ai lettori la mia città che adoro».

Il mistero ha tante forme e si declina in svariati modi. Donato Carrisi ha scelto quello del thrilleris­ta: «Nei miei libri non conta il chi, il come, il perché. Siamo usciti dai confini di genere, non più romanzi di nicchia. Ci sono riferiment­i alti, Il nome della rosa di Umberto Eco è un thriller. Dan Brown è un erede di questo tipo di letteratur­a. Ormai sdoganata. E noi italiani abbiamo una tradizione, nulla da invidiare agli anglosasso­ni».

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