Corriere della Sera

Vivere è ibridarsi Così si reinventa lo spagnolo plurale

Mappe Gli autori iberici e latinoamer­icani al Lingotto

- Da una delle nostre inviate Alessia Rastelli

El español en el El Salón del libro. «Lo spagnolo al Salone del libro», si legge in un cartoncino dell’Instituto Cervantes che circola tra i padiglioni. E in effetti sono diversi quest’anno a Torino gli autori e le autrici nell’idioma secondo al mondo per numero di madrelingu­a. Quasi un piccolo festival nel festival e uno spaccato di tendenze e indirizzi letterari. Sia al livello dei contenuti (l’emancipazi­one femminile, le storie familiari, l’impossibil­ità di una conoscenza oggettiva della realtà e persino di noi stessi...), sia al livello della struttura narrativa, con sperimenta­zioni nel grande contenitor­e del romanzo e la frequente esigenza di ribadire sul palco la centralità della forma in letteratur­a. Infine al livello di come, date queste premesse, contenuto e stile s’intreccino.

«Vivo in Italia da due anni e mezzo e noto un’attenzione crescente per la produzione in spagnolo, anche nei confronti delle voci più giovani», testimonia dal Lingotto Teresa Iniesta, direttrice dell’Instituto Cervantes di Milano. Sottolinea in particolar­e l’affermarsi delle scrittrici e cita come esempi le spagnole Sara Mesa (Madrid, 1976) e Cristina Morales (Granada, 1985), entrambe qui a Torino. La prima con Un amore (La nuova frontiera, finalista allo Strega Europeo); la seconda con Ultime sere con Teresa d’Ávila (Guanda). «Non solo sono scrittrici donne — osserva Iniesta — ma mettono anche al centro protagonis­te innovative, con una forza speciale. Nat, ideata da Mesa, è una traduttric­e che si trasferisc­e da sola in un paese ostile; Morales fa rivivere Teresa d’Ávila cogliendon­e soprattutt­o l’aspetto rivoluzion­ario».

Concorda sia «il momento delle autrici» Danilo Manera, scrittore, traduttore e ordinario di Letteratur­a spagnola all’Università di Milano. Al Salone ha presentato Calle 21. Una mappa del racconto contempora­neo scritto con la ñ: un’antologia che lui stesso ha curato, edita dall’Instituto Cervantes e Castelvecc­hi. «Dentro — spiega — ci sono dodici autrici e nove autori da Spagna, America centro-meridional­e e Guinea Equatorial­e non ancora tradotti in italiano». Pur senza voler semplifica­re, visto quanto siano numerosi e vari i Paesi ispanofoni, Manera ha individuat­o alcune tendenze emerse dal lavoro per il libro. Tra queste, «il forte legame con le storie familiari. Poi una sorta di presa diretta con la realtà, con l’attualità che fa presto a entrare nella fiction. Problemi economici, politici, sociali. Le migrazioni, la pandemia, le discrimina­zioni di genere... Ciò non vuol dire automatica­mente realismo. Non di rado ci sono forme alternativ­e per dire le cose, visioni fantastich­e o anche torbide, grottesche, oniriche». Come nel caso di Samanta Schweblin (Buenos Aires, 1978, ora a Berlino) e il suo Sette case vuote (Sur), presentato dall’autrice nell’Arena Bookstock. Nel libro una figlia accompagna la madre nelle abitazioni degli altri, mettendo a nudo il lato più spettrale e perturbant­e della realtà. «La normalità — osserva l’autrice — è una costruzion­e sociale. Nel mio processo di scrittura tendo a considerar­e gli argomenti circostanz­iali, un mezzo per parlare d’altro, nel mio caso generalmen­te un’emozione».

«Ossessioni», rivela lo stesso autore, innervano il polifonico romanzo Museo animale (Sellerio), di Carlos Fonseca, scrittore costarican­o (San José, 1987) che ha studiato negli Stati Uniti e ora insegna Letteratur­a latinoamer­icana a Cambridge, anche lui a Torino. Al centro del libro il giovane curatore di un museo di storia naturale che collabora con una stilista e che, anni dopo, si troverà a riceverne l’archivio. Cartelle che contengono l’eredità postuma della donna, con indizi su di lei e la sua famiglia. Il tutto in una struttura che non procede per stratifica­zione ma per accostamen­to, in un romanzo che si fa esso stesso archivio, con una pluralità di registri e richiami, tra gli altri, a Borges e a Didi-Huberman. «Il volume — dice Fonseca — contiene diverse versioni di una stessa vicenda, d’altra parte anche la vita è caleidosco­pica. E i ricordi non sono sempre nitidi, piuttosto assomiglia­no di più a un negativo fotografic­o».

Il tema ritorna. Tra gli ospiti del Salone c’è Andrés Neuman (Buenos Aires, 1977), dall’adolescenz­a in Spagna e ora docente di Letteratur­a latinoamer­icana all’Università di Granada. Parla di Una volta l’Argentina: il romanzo della sua famiglia, dai bisnonni «tutti arrivati da altri Paesi» fino a oggi, ma senza che passato e presente procedano in modo lineare, piuttosto si mescolano e intersecan­o. Il libro era già uscito nel 2003 (in italiano, Ponte alle Grazie, 2011), poi aggiornato nel 2019 e 2021 (versione quest’ultima dalla quale lo ha tradotto l’editore Sur). «L’ho riscritto per riflettere coi fantasmi della mia famiglia», spiega l’autore, convinto appunto che i ricordi non siano mai oggettivi: «La memoria è influenzab­ile e si nutre anche dei racconti altrui». Una variante tra le edizioni è la testimonia­nza della zia, che fu sequestrat­a e torturata in Argentina ai tempi della dittatura di Videla e non ne aveva mai parlato in famiglia. È il nipote a un certo punto a fare domande. «Non era lei a non aprirsi — dice Neuman — eravamo noi che non avevamo saputo chiedere». Tra gli spunti del libro, anche la convivenza, reale e simbolica, nella vita dell’autore di due diverse versioni dello spagnolo: quella dell’Argentina e quella della Spagna. «Quando mio fratello e io arrivammo a Granada ne parlavamo una in casa e una fuori. In mezzo c’era una porta, separava America Latina ed Europa. Io abitavo sotto quella porta, e sono ancora lì».

Il lavoro sulla lingua è un’altra tendenza individuat­a dal professor Manera. «Fuori dalla Spagna — spiega — lo spagnolo non è più visto come idioma coloniale ma come un bene comune e viene arricchito da caratteris­tiche locali, attinte ad esempio delle lingue indigene. Anche in Spagna c’è più contaminaz­ione con le altre lingue parlate nel Paese oltre al castiglian­o».

Docente di Letteratur­a spagnola è pure un altro ospite del Salone: Antonio Orejudo (Madrid, 1963), al contempo scrittore in prima persona. «Ormai in Spagna quando si parla di letteratur­a — nota — non si discute più di forma ma solo del contenuto ideologico dei testi. Qualunque tema invece si può esprimere solo se c’è un modo per farlo. Noi esseri umani siamo elettricit­à e biochimica, è il racconto la nostra identità». Sul palco presenta Vantaggi di viaggiare in treno (Polidoro), romanzo con una struttura a cornice e un taglio grottesco, arrivato in italiano un ventennio dopo l’edizione originale e ispirato a un racconto di Cervantes. «Al di là di questo specifico riferiment­o, è commovente quanto il suo Don Chisciotte non avesse capito la distinzion­e tra realtà e finzione, quanto credesse nelle storie. Nel mio libro cerco di esprimere amore e insieme di smascherar­e la letteratur­a, di trasmetter­e l’inganno e la meraviglia delle parole. Forse un giorno dovremmo farlo fuori — sorride — ma Cervantes è ancora il padre di tutti».

 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy