Energia e passioni dei ragazzi francesi Serial killer dall’Iran
Perché fare l’attore? È la domanda che gli esaminatori fanno all’inizio di Les Amandiers a chi vuole essere ammesso al teatro omonimo di Nanterre, diretto da Patrice Chéreau (qui col volto di Louis Garrel), ed è quella davanti a cui i giovani candidati non riescono a trovare risposte razionali. Probabilmente è successo così anche a Valeria Bruni Tedeschi quando a metà degli anni Ottanta entrò proprio in quella scuola e il film che ha presentato ieri in concorso a Cannes cerca di rispondere, non certo provando a fare chiarezza, ma sottolineando quella voglia di vivere, quell’energia fatta di passioni e spregiudicatezze, quella incontenibile carica vitale che spinge i giovani protagonisti a mettersi in gioco sulla scena. Per questo, più che una vera trama, seguiamo le tante disavventure — personali, sentimentali, professionali — di Stella e Étienne, di Frank e Adèle, di Claire e Anaïs e Stéphane, ognuno alle prese con i propri fantasmi e i propri desideri. È un racconto sincopato, che a volte sembra dilungarsi su un personaggio (Stella, interpretata dall’ottima Nadia Tereszkiewicz, è uno specchio della regista) e altre volte sorprende con improvvise ellissi, per concludersi con l’esame della loro prima recita pubblica. Chi si aspetta una Bruni Tedeschi (cosceneggiatrice con Noémie Lvovsky e Agnès de Sacy) legata alle schermaglie alto-borghesi e alle narrazioni marivaudiane dei suoi ultimi film resterà sorpreso: l’energia dei giovani interpreti sembra trasmettersi alla macchina da presa di Julien Poupard, al montaggio di Anne Weil, mai così nervosi e elettrizzanti, come anche la musica si incarica di fare (svariando da Bach a Fred Buscaglione), qui mai solo accompagnamento ma forma sonora per quello che le parole non riescono a esprimere, alla ricerca di una libertà di messa in scena inedita per la regista. E alla fine forse nessuno saprà rispondere alla domanda iniziale, ma l’idea che recitare e vivere sono tanto simili da fondersi, questo ce lo ha sicuramente fatto capire.
L’iraniano auto-esiliatosi in Svezia Ali Abbasi sceglie invece per Holy Spider un impianto più tradizionale, quello del thriller: qualcuno strangola le prostitute della città santa di Mashhad e una giornalista (Zar Amir-Ebrahimi) vuole scoprire perché le autorità non fanno il possibile per scoprirlo. Chi sia il «santo ragno» del titolo, cioè l’assassino (Mehdi Bajestani), lo scopriamo presto, insieme al fanatismo religioso che lo ha trasformato in un paladino della morale, ma non sempre la storia sa conservare la tensione che la trama gialla richiede. Funziona meglio quando l’occhio della giornalista si allarga alle «complicità» religiose e politiche che sembrano voler trasformare il killer in un eroe popolare, con un disprezzo per la donna che l’ultima testimonianza — quella del figlio adolescente dell’uccisore — si incarica di stampare nella memoria dello spettatore.